Il giornalista che diffama a mezzo stampa un politico o un magistrato rischia il carcere fino a 9 anni. Potrebbe essere questo il risultato del combinato disposto della legislazione vigente con una norma contenuta nel ddl già approvato in commissione Giustizia del Senato il 3 maggio scorso, che l’Aula del Senato sta ora per esaminare. Si tratta dell’articolo 339 bis che verrebbe inserito nel codice penale nel caso in cui venisse approvato il disegno di legge contro le intimidazioni agli amministratori locali. La norma prevede infatti che le pene stabilite per alcuni reati tra cui la diffamazione a mezzo stampa (art.595 c.p) siano “aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso ai danni di un componente di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’ adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio”. E siccome l’articolo 13 della legge n.47 del 1948 (diffamazione a mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto determinato) prevede il carcere da 1 a 6 anni, se entrasse in vigore il 339 bis, la pena massima aumenterebbe della metà: cioè 9 anni (6+3). Il provvedimento approvato praticamente all’unanimità in commissione Giustizia del Senato e ora al secondo punto dell’ordine del giorno dell’Aula, in realtà, avrebbe come “unica” finalità “quella di difendere gli amministratori pubblici da minacce e violenze”, come spiega la prima firmataria del provvedimento Doris Lo Moro (Pd), già presidente della Commissione di inchiesta sul fenomeno delle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali.
“In realtà – spiega la parlamentare – noi puntiamo a tutelare gli amministratori pubblici da intimidazioni, violenze o minacce, finalizzate a bloccarne il mandato. E il nostro intervento punta ad essere anche molto chirurgico nel senso che, laddove si prevedeva che la minaccia o l’intimidazione per essere punita dovesse riguardare un “Corpo politico amministrativo o giudiziario” nel senso di una categoria di persone, noi abbiamo introdotto anche la possibilità di colpire nel caso in cui il minacciato sia il “singolo componente”, cioè il singolo individuo appartenente a quella categoria”. Ma i tecnici giustizia della maggioranza contrari all’ impostazione della norma, già ribattezzata “norma salva Casta”, fanno osservare che così com’è stata scritta “rappresenta davvero un rischio per i cronisti” a meno che non entri in vigore un altro provvedimento (attualmente fermo proprio in commissione Giustizia del Senato): quello che porta la firma dell’attuale ministro Enrico Costa (Ncd) e che elimina il carcere per i giornalisti.
L’articolo 3 del disegno di legge che difende gli amministratori pubblici, si spiega in ambienti della maggioranza a Palazzo Madama, non sarebbe stato scritto in modo che fosse chiaro il “dolo specifico”, diventando un concreto “pericolo” per il giornalista che critichi il politico, il magistrato o il pubblico amministratore. Nella norma si scrive, infatti, che le pene aumentano da un terzo alla metà se il “fatto è commesso ai danni di un componente di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio”. Senza che si sottolinei la “vera” intenzione del legislatore che era quella, come spiega Doris Lo Moro, di punire soprattutto la natura “ritorsiva” della diffamazione. Cosa che potrebbe mettere un po’ più al riparo il giornalista dai guai. Sicuramente, affermano anche deputati del Pd che si occupano di giustizia, “la norma andrà rivista. La finalità è giusta, ma va scritta meglio e soprattutto va armonizzata con il resto dei provvedimento all’esame del Parlamento, a cominciare dal ddl Costa che cancella il carcere per i cronisti. E se non lo cambiano al Senato, lo emenderemo noi…”.