Nonostante le “difficoltà politiche”, quelle assodate e quelle last minute, nasce in tempi record il governo di Paolo Gentiloni. In attesa di viceministri e sottosegretari, la squadra è per ora composta da 20 persone: il premier, 18 ministri, il sottosegretario di palazzo Chigi con funzione di segretario del Cdm. E dei 20, solo due non facevano parte dell’esecutivo Renzi: Anna Finocchiaro e Valeria Fedeli. Ecco allora che le prime parole di Gentiloni non possono essere una sorpresa: “Come si vede dalla sua struttura, il governo proseguirà nell’azione di innovazione svolta fin qui dal governo guidato da Matteo Renzi”. Le opposizioni la mettono così: una fotocopia, un Renzi-bis senza Renzi. Ma l’unico modo per dare vita al governo in tempi rapidissimi, “per aderire all’invito del presidente della Repubblica e credo nell’interesse della stabilità delle nostre istituzioni”, era proprio questo: toccare il meno possibile la squadra. Per rispettare gli equilibri interni al Pd, per rispettare gli equilibri nella maggioranza.
Doveva restare Pier Carlo Padoan, per assicurare continuità nelle politiche economiche. Dovevano restare tutti i leader delle aree Pd: Franceschini, Martina, Orlando. Dovevano restare i renziani di ferro, Lotti (sia pure ancora senza delega ai Servizi) e Boschi, garanti per l’ex premier. E a quel punto gli altri ministri Dem, come Marianna Madia, pure data in uscita. Paga solo Stefania Giannini, responsabile della riforma della scuola che da mesi lo stesso Renzi indicava come principale errore del suo governo. Né si potevano toccare i delicati equilibri della galassia centrista: restano Galletti e Costa, oltre ad Alfano che ottiene di liberarsi della complicata partita immigrazione. E non c’è quindi spazio per la richiesta di Denis Verdini, che mentre il presidente incaricato è a colloquio con il capo dello Stato, tenta il tutto per tutto: o un ministro per Ala o niente fiducia. Ultimatum che rimarrà ignorato, anche perché, se invece Gentiloni avesse ceduto, si sarebbe aperto il fronte del gruppo delle Autonomie, che al Senato assicura alla maggioranza ben 17 senatori, senza alcun ministro. Una minaccia, quella di Verdini e Zanetti, che se sarà attuata avrà come primo effetto quello di rendere determinante in Senato la minoranza Dem. Ovvero, per dirla con un parlamentare Pd, di “legargli le mani”. Non solo: i numeri al Senato si restringono, e l’orizzonte del governo si fa più stretto. Insomma, “è un favore a Renzi”, è il ragionamento di più di un esponente Dem.
E un altro Pd osserva: “Restano Lotti e Boschi, non entra neanche un nome riconducibile direttamente a Gentiloni, le uniche new entry, Finocchiaro e Fedeli, vengono entrambe da storie di sinistra per non offrire altri argomenti alla minoranza.E’ il governo di Mattarella per la rapidità dei tempi, ma è il governo di Renzi per la sua composizione e forse anche per quella che sarà la sua durata”. Sapendo che comunque c’è sempre la partita dei sottosegretari, per recuperare con Verdini, “e bisognerà vedere se Gentiloni deciderà di andare allo scontro con Ala revocando il ruolo di viceministro a Zanetti”. Sarà come sarà, Gentiloni fissa intanto con una breve dichiarazione le sue priorità: lavoro, Sud, disagio del ceto medio. E poi, in politica estera, assoluta continuità nelle battaglia in sede europea: “Politiche comuni sui migranti e politiche economiche orientate alla crescita”. Obiettivi su cui il governo “si metterà al lavoro immediatamente con tutte le sue forze, concentrato sui problemi da risolvere, e con l’ottimismo che ci deriva dalla grande forza del popolo italiano. Non mi nascondo le difficoltà politiche che nascono dall’esito del referendum e dalla crisi che si è aperta. Sono difficoltà cui dobbiamo fare fronte”. Come l’altro obiettivo del governo: “Si adopererà per facilitare il confronto tra le forze parlamentari per individuare le nuove regole per le leggi elettorali”, spiega Gentiloni. Sapendo che anche e soprattutto dall’esito di questo confronto passa la durata dell’esecutivo.