Guerra in Ucraina, il sogno di Trump di una tregua entro Pasqua. Cauto il Cremlino

Donald Trump
Donald Trump ha rivolto un manifesto sfida al mondo, proclamando: “Non credo che ci sia nessuno al mondo che fermerà Putin a parte me”. La sua affermazione, pronunciata in un’intervista al sito Outkick , non è solo un’espressione di fiducia personale, ma un chiaro tentativo di riaffermare il ruolo degli Stati Uniti come artefice di pace in un conflitto che ha già lasciato tracce di distruzione in Ucraina e turbato l’equilibrio globale. Tuttavia, mentre il presidente americano si mostra convinto di poter piegare le resistenze di Mosca grazie al suo rapporto con Putin, la realtà dei colloqui a Riad – e le caute riserve del Cremlino – mettono in evidenza quanto sottile sia il filo tra speranza e illusione in un contesto carico di sospetti e dinamiche complesse.
Il mito del leader che tutto può
Trump ha sempre curato la sua immagine di negoziatore capace di stravolgere le regole del potere. Nel caso di Putin, questa convinzione si fonda su due chiamate telefoniche (12 febbraio e 18 marzo) e su una presunta influenza diretta sul leader russo. “Ho un buon rapporto con Putin”, ha ripetuto, sottolineando una fiducia che, secondo alcuni analisti, si basa più sulla persuasione mediatica che su una vera collaborazione strategica. L’idea che un leader possa risolvere un conflitto con un semplice “gesto” è un tratto tipico della retorica trumpy, che spesso sminuisce la complessità delle relazioni internazionali.
Tuttavia, la guerra in Ucraina non è un affare da tavolo da poker. Si tratta di un conflitto che coinvolge non solo le ambizioni territoriali di Mosca, ma anche l’equilibrio dell’Europa orientale, la sicurezza energetica globale e il sistema di alleanze NATO. Il presidente americano, pur avendo un microfono, non può ignorare che i negoziati di Riad sono solo una fase di un processo che richiede compromessi su questioni tecniche, militari e geopolitiche.
Riad: un passo avanti, ma con i piedi di piombo
Gli incontri tra ucraini e americani a Riad, avviati con il ministro della Difesa ucraino Rustem Umerov, sono un tentativo di riprendere il dialogo interrotto da mesi. L’agenda è ampia: protezione delle infrastrutture energetiche, ripristino delle rotte nel Mar Nero, e – come ha sottolineato il consigliere Waltz – un progressivo congelamento delle linee del fronte. Ma i colloqui sono solo l’inizio.
Il ruolo degli Stati Uniti è centrale: Washington cerca di mediare tra due attori che si ostinano su posizioni opposte. Mentre Zelensky insiste sull’indipendenza dell’Ucraina e il ritiro completo delle truppe russe, Putin difende la “special operation” come inevitabile. L’ottimismo di Waltz, che ha affermato di essere “mai così vicini alla pace”, si scontra con la prudenza del Cremlino. Il portavoce Peskov ha chiarito che i negoziati sono “appena iniziati” e che le trattative con gli americani saranno “difficili”.
Il rischio del deadline simbolico
La data di scadenza proposta – il 20 aprile, data della Pasqua sia cattolica che ortodossa – è un’altra mossa simbolica di Trump, che cerca di associare la pace a un evento religioso universale. Ma come ha notato il New York Times, questa scadenza è considerata “ambiziosa” perfino dalla Casa Bianca. La scelta di un simbolo come la Pasqua potrebbe avere due letture: da un lato, un richiamo all’unità e alla riconciliazione; dall’altro, una pressione politica per convincere l’opinione pubblica che la guerra può finire in tempo per una festività, evitando così un’escalation durante le elezioni statunitensi.
Mosca: scommettere su Trump, ma non fidarsi
Il Cremlino non ha escluso che ci siano state contatti informali tra Putin e Trump oltre alle telefonate ufficiali, ma ha mantenuto un tono cauto. L’attenzione di Mosca è concentrata su un accordo per il Mar Nero, un tema che interessa direttamente le esportazioni di grano e carburante russe. Tuttavia, non è chiaro se Putin intenda davvero un cessate il fuoco limitato o se utilizzerà i negoziati per guadagnare tempo e rafforzare le posizioni militari.
La strategia russa è sempre stata quella di “combattere e negoziare”, come osserva l’analista Ivan Safranchuk del Carnegie Moscow Center. Il fatto che il Cremlino abbia incluso nella delegazione un rappresentante del FSB (Sergey Beseda) suggerisce che i colloqui potrebbero essere un’occasione per raccogliere informazioni o per creare un’illusione di collaborazione, senza cedere sulle posizioni centrali.
Il dilemma ucraino: fiducia o sospetto?
Per l’Ucraina, la partecipazione ai colloqui è un passo delicato. Zelensky ha inviato delegazioni con esperti militari e di energia, ma è consapevole che qualsiasi tregua potrebbe essere interpretata come una vittoria parziale per Mosca. La scelta di Riad – un paese vicino a entrambe le parti – è un tentativo di evitare il ruolo di mediatore da parte dell’UE o dell’ONU, ma anche di limitare l’influenza diretta di Washington.
Il ministro Umerov ha già precisato che gli incontri sono incentrati su “questioni tecniche complesse”, evitando di esprimere eccessivo ottimismo. Questo contrasta con le dichiarazioni di Witkoff, secondo il quale Putin non ha intenzioni espansionistiche oltre l’Ucraina. Ma come ricorda l’esperto Steven Pifer, ex ambasciatore statunitense a Kiev, “le dichiarazioni di intenti non sono sufficienti quando si tratta di un leader che ha già violato l’integrità territoriale di un paese”.
Il futuro: un fragile equilibrio
Se i colloqui avranno successo, il risultato potrebbe essere un cessate il fuoco parziale che permette il ripristino delle rotte nel Mar Nero e la riduzione delle azioni aeree. Ma una pace duratura richiederebbe riconoscimenti territoriali, questione che Mosca non intende affrontare. Trump, con la sua visione pragmatica, potrebbe accettare compromessi che Zelensky rifiuterebbe, creando una frattura tra le due alleanze.
Se falliranno, il conflitto potrebbe entrare in una fase di stallo, con attacchi mirati alle infrastrutture e una crescita della radicalizzazione a Kiev e a Mosca. In entrambi i casi, la guerra non finirà entro Pasqua, ma il tentativo di Trump di mediare rivela quanto la geopolitica sia diventata un palcoscenico di scommesse, dove l’ottimismo di un leader può essere tanto un’arma quanto un’illusione.
L’affermazione di Trump – “la guerra finirà grazie a me” – è un esempio lampante della retorica che ha contraddistinto il suo mandato: un mix di fiducia in sé stesso e di convinzione che le relazioni interpersonali possano risolvere qualsiasi crisi. Tuttavia, la guerra in Ucraina è un problema che sfida non solo le capacità diplomatiche, ma anche le ambizioni e le paure di una decina di nazioni. Mentre Riad diventa un teatro di speranze e sospetti, la domanda rimane: Trump potrà davvero ridurre la guerra a un accordo di salotto, o la realtà geopolitica gli farà capire che la pace è un obiettivo più ambizioso di quanto non sembri?