Saluti con la mano alzata. Sorrisi. Poi una mano sul cuore. Segni visibili dell’emozione che saliva. Un sospiro. Una schiarita di voce. Un pollice alzato in segno di vittoria e ripetuti “Thank you”. Ci è voluto qualche minuto per Hillary Clinton prima di potere iniziare il suo discorso, forse il più importante della sua vita: quello con cui nella notte ha accettato con “umiltà, determinazione e sicurezza” la nomination democratica diventando ufficialmente la prima donna a rappresentare un grande partito alle elezioni per la conquista della Casa Bianca. “Stare qui”, sul palco della Wells Fargo Arena di Philadelphia, “come madre di mia figlia (Chelsea, che l’ha introdotta esaltandone le qualità materne e professionali) e come figlia di mia madre (Dorothy, morta nel 2011 ma di cui dice di sentire ancora la voce), sono così felice che questo giorno sia arrivato”. Dicendosi “una persona migliore” grazie all’amicizia con il presidente Barack Obama, con cui ha lavorato come segretario di Stato, Clinton ha subito ringraziato l’uomo che inaspettatamente le ha reso difficile la stagione delle primarie spingendola più a sinistra: il senatore del Vermont Bernie Sanders. Gli si è rivolto direttamente, consapevole di quegli elettori, soprattutto giovani, ancora restii a votare per lei. Lui, rosso in viso, l’ha ascoltata dagli spalti: “Bernie, la tua campagna ha ispirato milioni di americani, specialmente i giovani che hanno investito anima e corpo nelle primarie”. Con lui ha promesso di “lavorare insieme per università gratuite per la classe media e senza debito per tutti”.
Poi l’aspirante presidente è passata all’attacco del rivale repubblicano Donald Trump. Anche alla luce del fatto che “l’America ancora una volta si trova alla resa dei conti”. Ha criticato la sua retorica che divide, che dissemina paura, che sminuisce la potenza degli Stati Uniti e la forza della Nato. Clinton ha anche deriso il suo grande ego, quando dice che “da solo” risolverà tutti i problemi che affliggono la nazione. Lo ha fatto all’insegna del motto “stronger together”, più forti se uniti. Quel motto – forse destinato a diventare l’equivalente del “yes we can” di Obama della campagna elettorale del 2008 (quella in cui lui ebbe la meglio proprio su Hillary) – ha fatto da canzone di sottofondo alla fine della serata quando palloncini bianchi, rossi e blu (i colori della bandiera Usa) volavano nell’arena e Clinton tornava ad abbracciare famigliari, amici, collaboratori e il suo vice Tim Kaine. Trump “vuole dividerci dal resto del mondo e da noi stessi”, ha tuonato la candidata democratica. “Scommette che le difficoltà del mondo d’oggi ci accecheranno di fronte alle sue promesse illimitate. Vuole che temiamo il futuro e che temiamo noi stessi”. Ma lei no. Hillary ha citato “un grande presidente democratico”, Franklin Delano Roosevelt, quando oltre ottanta anni fa “durante tempi più difficili” disse che “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. Così, incitando la folla riunita davanti a lei, Clinton ha detto: “Noi non abbiamo paura”. Certo.
Le sfide non mancano come quella posta dal terrorismo “contro cui lotteremo insieme ai nostri alleati” inclusi quelli parte della Nato: “Sono orgogliosa di stare al fianco [dei membri dell’alleanza] contro qualsiasi minaccia, anche quelle dalla Russia” (chiara frecciata all’ipotesi lanciata da Trump di un mancato aiuto da parte degli Stati Uniti verso i membri Nato se mai dovessero essere attaccati da Mosca). L’America di Clinton è già “great”, non ha bisogno di diventarlo. L’America di Clinton “affronterà le sfide come ha sempre fatto, non costruirà un muro”, quello lungo il confine con il Messico che Trump vuole. Lei promette invece di “costruire un’economia dove chiunque voglia un lavoro ben pagato, lo può ottenere”. Con lei nello Studio Ovale, “costruiremo una via verso la cittadinanza per milioni di immigrati che stanno già contribuendo a fare girare la nostra economia”…”sarebbe disumano e autodistruttivo cacciarli via”. L’ex first lady nega anche la messa al bando di determinate religioni, mentre Trump vorrebbe impedire l’ingresso negli Usa dei musulmani. Trump è stato attaccato anche sul piano economico. Non importa se è un imprenditore, un magnate del real estate, uno showman della tv. Non importa se promette al suo bacino elettorale di riportare posti di lavoro in America.
“Parla tanto di volere mettere l’America al primo posto. Per favore, ditemi cosa lo porta a fare cravatte in Cina, non in Colorado; vestiti in Messico, non in Michigan; mobili in Turchia, non in Ohio; cornici in India, non in Wisconsin. Dice di volere rendere l’America grandiosa di nuovo. Beh, potrebbe iniziare producendo di nuovo cose in America”. E ricordando i 70 minuti di discorso di Trump alla convention del Gop – “70 minuti bizzarri” – Clinton lo ha citato quando ha detto “So più cose io dell’Isis che i generali…”. A quel punto lei si è rivolta direttamente a lui guardando dritto nella telecamera: “No, Donald, non le sai”. E via a criticare il suo carattere inadatto per essere un Commander in Chief”. E rivolgendosi a chiunque nella notte la stava ascoltando: “Non permettete a nessuno di dirvi che il nostro Paese è debole. Non lo è. Non permettete a nessuno di dirvi che non abbiamo quello che serve. Lo abbiamo. E soprattutto: non credete a chi vi dice ‘Da solo posso sistemare tutto'”. Gli americani dicono “Lo sistemeremo insieme”. Promettendo di essere un presidente per “democratici, repubblicani e indipendenti; per chi fa fatica, per chi ha successo e per chi punta in alto; per chi vota per me e per chi no; per tutti gli americani”, Clinton ha descritto la sua missione: “creare più opportunità e più posti di lavoro con salari in rialzo qui negli Stati Uniti”. Per raggiungere l’obiettivo, per “iniziare un nuovo capitolo” a partire da ieri notte, la candidata democratica ha chiesto agli americani di essere “più forti insieme”, di guardare al futuro con “fiducia e coraggio”. Così facendo “l’America sarà ancora più grandiosa”.