di Cristina Giuliano
Sono passati 15 anni dall’affondamento del sottomarino militare russo K-141 Kursk, uno degli eventi più problematici in tutta la carrira di Vladimir Putin. Quindici anni di rafforzamento della ledership del capo del Cremlino, sempre meno discusso sui media e sempre più osannato dai suoi connazionali, in particolare in seguito alla crisi ucraina e all’annessione della Crimea. La cerimonia commemorativa dedicata alla tragedia, di solito si tiene il 12 agosto, nonostante i marinai a bordo del vascello rimasero a lungo imprigionati in quella gabbia di ferro. In quel maledetto giorno, nel 2000, durante le esercitazioni della Flotta del Nord nel mare di Barents il sottomarino Kursk, a soli 5 anni dal suo varo, fu affondato ad una profondità di 108 metri. Morirono tutti i 118 membri dell’equipaggio. Le ragioni del disastro non sono ancora completamente definite e rimane il mistero anche su quanto a lungo le persone al suo interno rimasero vive. Nonchè ovviamente sull’origine della tragedia. E tuttavia, ogni anno, l’attenzione sul disastro è in flessione. I media federali non prestano molto spazio a quello, che è diventata una delle pagine più nere della storia della Russia moderna. Nonchè forse l’unica situazione pubblica dal quale Putin uscì sconfitto mediaticamente sul fronte nazionale. Mentre è passata alla storia la sua risposta sulla CNN a Larry King che gli chiedeva: “Cosa è successo al sommergibile?”. Con un sorriso più indecifrabile di quello della Gioconda, Putin rispose laconico: “E’ affondato”.
Recentemente nella città di Murmansk, askanews ha potuto visitare il monumento alle vittime del Kursk, creato con parte dei resti del relitto, ma poco pubblicizzato. E parlando con i locali emergevano sentimenti contrastanti, tra il profondo cordoglio per i marinai rimasti uccisi e una certa antipatia per i privilegi destinati alle vedove “che non li perdono a distanza di anni, pur rifacendosi una vita, se non si risposano”. Privilegi che vennero accordati dopo uno scontro pubblico tra le famiglie che chiedevano chiarezza e lo stesso Putin. Un momento complicato che nello stesso entourage del presidente russo molti descrivono come un’arena, dove il leader del Cremlino entrò con “molto coraggio”. All’epoca la Russia era davvero un altro Paese. Reduce dagli anni Novanta, dal capitalismo selvaggio, dall’incertezza di guida di Boris Eltsin: per molti versi era uno stato allo sbando. A distanza di 15 anni tuttavia, è fin troppo evidente quanto la presa di potere di Putin si sia rivelata d’acciaio. E anche la posizione dell’opinione pubblica su quella tragedia è fortemente mutata: lo dice un sondaggio dell’istituto indipendente Levada.
A 15 anni dal disastro il 40% dei russi ritiene che Mosca ha agito correttamente, il 35% pensa il contrario. Mentre all’epoca erano in molti ad accusare il Cremlino di poca trasparenza e di errori nella gestione del disastro, che ancora oggi non è ben chiaro se sia stato provocato da un “nemico” o da un’esplosione a bordo.
Non a caso, nel 2010, in un omologo sondaggio a sostenere le azioni della Federazione russa era solo il 34%, e nel 2000 il 23%. Allo stesso tempo, condannavano il governo il 46% degli intervistati nel 2010 e ben il 72% nel 2000. La commissione d’inchiesta russa che trasse le fila del caso, fu guidata dal procuratore generale Vladimir Ustinov, e concluse il 29 giugno 2002 che le esplosioni a bordo del sottomarino russo furono causate da un siluro difettoso, che innescò delle reazioni a catena. Esistono tuttavia teorie alternative (o del complotto) che gettano il sospetto sulla presenza di sommergibili Usa nell’area, come osservatori delle esercitazioni russe. Queste teorie si basano anche sulle immagini del relitto del Kursk che quando venne recuperato avrebbe presentato un foro circolare, rivolto verso l’interno. E collegano il tutto al successivo cancellamento del debito russo di 10 miliardi di dollari da parte degli Stati Uniti.