di Sarina Biraghi
“Niente porte chiuse”. Ancora dentro una comunità che apprezza e consente, a un battezzato, la riconciliazione dopo un tradimento, dopo il venir meno ad un patto di fedeltà, dopo un errore grave come la rottura di un sacramento indissolubile come il matrimonio. Ieri il Papa ha utilizzato un’espressione estremamente chiara ed efficace che definisce quale deve essere l’atteggiamento della Chiesa nei confronti di tutti. Peccatori compresi. A due mesi dall’apertura del Sinodo straordinario sulla famiglia, nella catechesi numero 100 del suo pontificato (nell’aula Paolo VI e non in piazza San Pietro per il gran caldo), Francesco ha tracciato una rotta che riapre il dibattito sulle coppie sposate e “ferite” a causa delle incomprensioni coniugali ma soprattutto sui divorziati risposati, un problema teologico, pastorale e giuridico che difficilmente potrà avere un soluzione definitiva. Infatti Bergoglio ha sottolineato che “la Chiesa sa bene che questa situazione contraddice il sacramento ma queste persone non sono affatto scomunicate e non vanno assolutamente considerate come tali”. Seguendo la filosofia del “buon pastore” Francesco pensa a una Chiesa madre che accoglie sempre i figli a cui ha dato la vita e quindi la stessa disponibilità deve averla la comunità ad accoglierli e a incoraggiarli, perché vivano e sviluppino sempre più la loro appartenenza a Cristo e alla Chiesa.
Francesco parla ai preti e ai religiosi, anche i più rigidi, affinchè “la Chiesa non abbia mai la porta chiusa verso nessuno” perché “tutti possono partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, tutti possono far parte della comunità”. L’accoglienza dunque è la vera missione del cristiano e, pur sottolineando che la Chiesa “ha il dovere di discernere chi ha subito e chi ha provocato la separazione”, Bergoglio guarda lontano e pensa al popolo della Chiesa che deve espandersi non diminuire, che deve partecipare non abbandonare: “Bisogna guardare anche questi nuovi legami con gli occhi dei figli piccoli, sono loro che soffrono di più e si deve evitare di aggiungere altri pesi oltre a quelli che già si trovano a portare. Come potremmo raccomandare a questi genitori di fare di tutto per educare i figli alla vita cristiana, dando loro l’esempio di una fede convinta e praticata, se li tenessimo a distanza dalla vita della comunità? Come se fossero scomunicati. Si deve fare in modo di non aggiungere altri pesi oltre a quelli che i figli, in queste situazioni, già si trovano a dover portare”. Ancora una volta, il Papa dei poveri e sofferenti, guarda alla contemporaneità, alla società in continua evoluzione (non necessariamente migliore) e pensa a una gestione pastorale della famiglia, della coppia che pur avendo creduto nel vincolo del matrimonio lo ha “tradito” separandosi. L’indissolubilità del sacramento diventa una prospettiva ideale anche per il cattolico che si impegna a rispettarla ma che sempre più spesso non ci riesce. Un cattolico che però, dopo il fallimento, vorrebbe il perdono di quella “Madre” accogliente e non respingente.
Francesco sa che le sue parole sono spesso interpretate “a piacere” e allora sembra voler smentire quanti vedono nella sua posizione uno strappo alla tradizione affermando: “In questi decenni la Chiesa non è stata insensibile, grazie all’accompagnamento dei pastori guidati dai miei predecessori” e cita Benedetto XVI e Giovanni Paolo II che hanno sollecitato discernimento e accompagnamento spirituale “sapendo che non esistono semplici ricette”. E Bergoglio sa anche che le sue “porte aperte” potrebbero non piacere ai vescovi che si riuniranno il prossimo ottobre, così come già era accaduto nel preparatorio Sinodo che si è tenuto nell’ottobre 2014 quando la spaccatura si era verificata proprio sull’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati e per il riconoscimento dei diritti per i gay. Nel documento base dell’assemblea, infatti, non c’è l’apertura alla comunione, ma solo a quella spirituale per i divorziati risposati che vivono in astinenza sessuale. Il testo sinodale suggerisce di avviare, sotto l’autorità del vescovo, “un percorso di presa di coscienza del fallimento e delle ferite da esso prodotte, con pentimento, verifica dell’eventuale nullità del matrimonio, impegno alla comunione spirituale e decisione di vivere in continenza”. Dal punto di vista teologico ed etico non c’è una soluzione definitiva ma si sa, in una Chiesa millenaria, i cambiamenti hanno bisogno di tempo. Tanto tempo.