Il mondo dell’arte saluta Ulay, maestro della performance

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Celebre per il lavoro con Marina Abramovic ma è stato molto altro

Ulay

C’è stato un tempo nel quale la performance era davvero qualcosa di estremo e clamorosamente nuovo nel sistema dell’arte contemporanea. Oggi è molto più accettata nei musei, anzi è addirittura incoraggiata dalle strategie di apertura e condivisione delle istituzioni culturali più lungimiranti. Per questo è importante ricordare, nel giorno della sua morte a 76 anni per un cancro, la figura di Ulay, al secolo Frank Uwe Laysiepen, l’artista tedesco che ha legato per un importante tratto la propria carriera a quella di Marina Abramovic, ma che, al tempo della controversa affermazione delle azioni performative, ha rappresentato molto altro, un maestro, un teorico, un “pioniere e provocatore”, come lo ha ricordato oggi The Guardian. Un artista in prima fila.

Travestimenti, auto indagine, utilizzo della Polaroid come elemento di mediazione tra forme di realtà apparentemente non conciliabili, pratiche sul confine dell’estremo: Ulay ha lavorato in molti ambiti, ha usato il proprio corpo come un medium fino all’ultimo e rappresenta, accanto a personaggi storicizzati come Vito Acconci o Dennis Oppenheim, una figura chiave per l’affermazione della pratica performativa, dopo di loro evolutasi in molti modi e divenuta centrale nel sistema del contemporaneo. E che ha vissuto anche di figure femminili radicali e decisive come Gina Pane o Carolee Schneemann. Maschile e femminile si sono, ovviamente, intrecciati nelle sue memorabili, e note a molti, collaborazioni con la Abramovic in azioni, perturbanti o rischiose, giustamente passate alla storia.

Una storia, quella tra i due artisti, che è stata anche amorosa, e ovviamente a tratti burrascosa (con tanto di alcune battaglie legali). Ma accanto all’immagine dei loro corpi nudi che sbattevano l’uno contro l’altro, oppure a quella di una freccia tesa e pronta a scoccare tra i due, forse il momento che oggi viene ricordato di più è legato alla performance “The artist is present” di Marina al MoMA di New York: lunghe ore su una sedia immobile a fissare a turno un diverso visitatore. Quando su quella sedia si è accomodato Ulay, in qualche modo, molti anni e molte emozioni hanno trovato un culmine. Il gallerista di Ulay, Richard Saulton, sempre al Guardian, ha detto che “era il più libero degli spiriti, un pioniere e un provocatore con un’opera radicalmente e storicamente unica, che si muove sul confine tra la fotografia e l’approccio concettuale della performance e della body art”.