Politica

Kim entra nell’era post-Trump: nucleare nostra difesa per sempre

L’era post-Trump è già iniziata, almeno dal punto di vista particolare della Corea del Nord. Il leader supremo Kim Jong Un oggi, tenendo un solenne discorso di fronte ai veterani della guerra di Corea (1950-1953) nel sessantasettesimo anniversario della firma dell’armistizio, ha riportato i termini diplomatici dell’equazione nucleare a prima del 2018, a prima dei suoi summit col presidente americano: l’arma nucleare – ha spiegato – è garanzia essenziale della sicurezza per la Republica democratica popolare di Corea e chiunque voglia colpire la Corea del Nord “la pagherà cara”. Punto. Finita l’epoca delle strette di mano, dei summit, delle ambigue dichiarazioni congiunte con il fumantino presidente Usa arrivato ormai agli ultimi mesi del suo mandato e totalmente incerto sulle sue possibilità di rielezione. La prospettiva per Kim è – se vincesse Joe Biden – di tornare alla snervante politica della pazienza strategica dell’amministrazione Obama, nella quale l’attuale candidato democratico era influente vicepresidente.

Kim Jong Un quindi guarda già oltre Trump mandando un messaggio specifico a Washington, chiunque sarà al timone, e alla più vicina Seoul: la Corea del Nord è una potenza nucleare e tale esterà. La “denuclearizzazione” non è all’ordine del giorno, qualsiasi nuovo tavolo negoziale dovrà partire da questo assunto. Probabilmente, all’ordine del giorno, la denuclearizzazione non è mai stata, dal punto di vista di Pyongyang. Quando a giugno del 2018, nel sopravvalutato summit di Singapore, Kim firmò la dichiarazione congiunta con Trump, immediatamente era parso evidente agli esperti che quel documento, nella sua vaghezza, non comportava alcun impegno concreto da parte nordcoreana. L’improvvisazione trumpiana, la magia da grande venditore di palazzi del presidente americano abituato alle trattative interpersonali, non aveva funzionato con la raffinata maestria diplomatica e politica di un pur giovane leader addestrato alla scuola della dinastia Kim.

Oggi Kim, solo alcune settimane fa dato per gravemente malato o addirittura morto da alcuni media internazionali, ha calato ancora una volta le carte. Ha ribadito che la Corea del Nord è ormai diventata “una potenza nucleare” seguendo la strada dell’auto-sviluppo, un concetto sintetizzato nella dottrina di stato Juche, proclamata dal nonno Kim Il Sung (fondatore della Repubblica democratica popolare di Corea) e articolata dal padre, Kim Jong Il (secondo leader). “Grazie alla nostra affidabile ed efficace deterrenza bellica di autodifesa, non ci sarà più guerra su questa terra e la nostra sicurezza nazionale e il nostro futuro saranno con fermezza garantiti permanentemente”, ha detto Kim, secondo quanto ha riferito l’agenzia di stampa ufficiale KCNA. In quel “permanentemente” c’è tutto il senso del fallimento del processo negoziale.

“Tenendo sempre a mente che noi dovremo mantenere un forte potere di deterrenza nel salvaguardare il destino del nostro paese e del nostro popolo, non rinunceremo mai ad affinare la più potente capacità di difesa nazionale, che non può essere eguagliata da null’altro”, ha continuato il leader. “Siamo diventati un paese – ha detto ancora Kim – che può con forza e con affidabilità proteggersi contro ogni tipo di pressione ad alta intensità e ogni minaccia o ricatto militare. (…) La guerra è un conflitto con qualcuno che si può sconfiggere. Ora però nessuno può più sottovalutarci. Se lo facesse, la pagherebbe cara”. La fine della speranza negoziale, nonostante le dichiarazioni del nuovo ministro dell’Unificazione di Seoul Lee In-young che ancora insiste sulla via del dialogo puntando sulla potente sorella del leader, Kim Yo Jong, appariva in realtà già evidente dalla retorica e dai gesti degli ultimi mesi.

La distruzione dell’Ufficio di collegamento sudcoreano nella città di Kaesong, per esempio, appariva un messaggio adamantino ai cugini della Sudcorea, i più esposti sul fronte del dialogo. Probabilmente, il negoziato Usa-Nordcorea è morto ad Hanoi, a febbraio dello scorso anno, quando l’inutile ulteriore summit Trump-Kim è finito senza alcun accordo. Quella di oggi è la prima volta dal 2015 che Kim parla alla conferenza dei veterani, un appuntamento che si ripete per la sesta occasione dal 1993 (quarantennale dell’armistizio). Forse il leader supremo ha bisogno di tirare le fila in un momento di grave crisi che il paese affronta mentre la pandemia COVID-19, pur avendo risparmiato la Corea del Nord da un punto di vista sanitario (ma diversi osservatori pongono dubbi), sta creando una pesante situazione economica. Per questo il regime ha inteso evidenziare l’anniversario, anche con grandi fuochi artificiali a Pyongyang e diversi altri eventi.

Nella conferenza dei veterani di oggi, nessuno indossava mascherine e, a giudicare dalle immagini, non è stata presa alcuna misura di distanziamento fisico. Questo nonostante due giorni fa il leader stesso abbia proclamato la massima allerta contro COVID-19 in seguito al sospetto che un fuoriuscito, ritornato rocambolescamente in Corea del Nord, possa essere contagiato. Un segnale di forza diretto all’interno, in un paese in cui le immagini e le coreografie hanno estrema importanza nell’armamentario propagandistico del regime. La conferenza punta a creare una continuità storica generazionale tra i veterani della Guerra di Corea – un feroce bagno di sangue seguito alla seconda guerra mondiale, che provocò due milioni e mezzo di soldati tra le file nordcoreane, cinesi, sudcoreane e Onu (sotto il comando Usa), oltre che circa due milioni di vittime civili, tra morti, feriti e mutilati – e la nuova generazione a cui lo stesso Kim appartiene. Il principale collante resta l’odio anti-americano. “Non poteemo mai dimenticare l’aggressione e la brutalità degli imperialisti Usa”, ha detto Kim segnkando che le “minacce e la pressione sono ancora in crescita”.

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