La chimica di 600mila stelle per capire la storia della Via Lattea
E individuare quelle nate al suo interno da quelle catturate
La nostra galassia, la Via Lattea, è una splendida spirale che si stima contenga dai 100 ai 400 miliardi di stelle. Alcune di queste stelle si sono originate in situ, sono nate cioè dalla stessa nube di polveri e gas che ha originato la galassia stessa. Altre, invece, sono stelle di galassie più piccole inglobate nella Via Lattea tramite processi di fusione galattica. Capire quali stelle appartengano al primo gruppo e quali al secondo – si legge su Media Inaf, il notiziario online dell’Istituto nazionale di astrofisica – è fondamentale per comprendere la storia della sua formazione. Un modo per discriminarne l’origine si basa sulla diversa abbondanza di specie chimiche: stelle che nascono insieme hanno abbondanze di elementi chimici simili tra loro ma significativamente diverse da quelle di altre popolazioni di stelle. Dunque ci si aspetta che stelle nate in luoghi diversi abbiano storie di arricchimento chimico diverse.
In un articolo apparso nel numero di febbraio della rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society un team di astronomi guidati da Astro3D (Australia) descrive i risultati di un’indagine il cui obiettivo è proprio questo: trovare la chimica che fa la differenza, ovvero determinare le abbondanze delle specie chimiche che possano aiutare a distinguere la diversa origine stellare. “Sebbene la Via Lattea sia la nostra galassia natale, non capiamo ancora come essa si sia formata ed evoluta”, sottolinea Sven Buder, ricercatore dell’Arc Centre of Excellence for All-Sky Astrophysics in 3 Dimensions (Astro3D) australiano e primo autore dello studio. “La Via Lattea ha divorato molte galassie più piccole, ma fino a poco tempo fa non avevamo prove sufficienti per affermarlo con certezza. Questo perché le immagini delle stelle che contiene sembrano le stesse, e questo vale sia per quelle nate al suo interno sia per quelle nate all’esterno e poi inglobate nella galassia stessa”.
Nel loro studio, Buder e colleghi – prosegue Media Inaf – hanno utilizzato i dati dell’indagine osservativa Galah (Galactic Archeology with Hermes) per ottenere gli spettri di luce di oltre 600mila stelle presenti nell’alone galattico – la struttura sferica che circonda le galassie a spirale – e nel disco galattico – la struttura a forma di disco in cui è presente il maggior numero di stelle di una galassia a spirale. All’interno di ciascuno di questi spettri di luce ci sono specifiche bande che variano a seconda della composizione chimica di una stella, rappresentando una sorta di codice a barre univoco. “Scansionando questi ‘codici a barre’ stellari, abbiamo misurato quale fosse l’abbondanza di trenta elementi chimici – come sodio, ferro, magnesio e manganese – e come variassero le loro concentrazioni a seconda di dove è nata la stella”, dice Buder. “Se un’immagine vale più di mille parole, questi spettri valgono più di mille immagini”. Combinando queste informazioni con quelle relative all’età e alla dinamica stellare ottenute dal satellite Gaia, i ricercatori hanno infine identificato la composizione chimica che meglio permette di discriminare l’origine intra o extra-galattica delle stelle.
“Lo sfruttamento sinergico dell’informazione chimica ottenuta grazie alla survey Galah con i dati astrometrici forniti dal satellite Gaia (data release eDr3) ci hanno consentito di determinare quale sia il tracciante chimico migliore per l’identificazione di stelle ‘catturate’ dalla nostra galassia rispetto alle popolazioni che, al contrario, si sono formate in situ”, spiega a Media Inaf Valentina D’Orazi, ricercatrice all’Inaf di Padova, fra i coautori dell’articolo. “Il nostro studio indica che i rapporti di magnesio/manganese [Mg/Mn] e sodio/ferro [Na/Fe] ci forniscono il mezzo migliore per differenziare l’origine stellare. In generale, la combinazione di chimica, cinematica e dinamica ci fornisce uno strumento molto potente per la comprensione dei meccanismi di formazione della nostra galassia e degli eventi di accrescimento (o “cattura”) di altre popolazioni. Tali eventi hanno contribuito all’assemblaggio della Via Lattea come la vediamo adesso”.
“In futuro questa nuova metodologia potrà essere applicata anche per rivelare differenze all’interno delle popolazioni stellari catturate e per investigare quanto simili/diverse siano le stelle in situ rispetto a quelle catturate (non soltanto sul piano chimico)”, conclude D’Orazi. “Speriamo di poter far luce su alcuni aspetti fondamentali ancora insoluti che includono quanti e quali eventi di merging si sono verificati e dove possiamo rivelare i ‘resti’ di questi eventi di cattura”.