La rabbia dei renziani e la tentazione del rilancio: “Voto subito”. Bene Grasso per Palazzo Chigi
IL DOPO RENZI Obiettivo capitalizzare quei 13,5 milioni di Sì alla riforma costituzionale. Sconforto e delusione tra i seguaci del premier dimissionario
Lo sconforto dei renziani in Parlamento è evidente, il linguaggio e persino la postura raccontano di una delusione che è più grande di quella che si poteva immaginare anche solo ieri mattina. Ma, parlando con deputati e senatori fedeli al premier, non si coglie nessun segno di disarmo, anzi: la tentazione è quella del rilancio, ovvero andare “al voto subito”, per capitalizzare quei 13,5 milioni di sì arrivati ieri. Un ragionamento che fino a ieri sera era anche del premier ma che bisognerà vedere se reggerà all’urto di quei 6 milioni di voti in più presi dal No, una cifra che nessuno aveva messo in conto. L’idea iniziale, il piano B elaborato da Renzi, prevedeva infatti una sconfitta comunque contenuta, uno scarto nell’ordine di alcune centiniaia di migliaia di voti, massimo un milione-un milione e mezzo.
Il premier aveva anche pubblicamente indicato la sua asticella: “Con 15 milioni di Sì si vince”, aveva affermato. Erano calcoli fatti considerando un’affluenza tra il 55% e il 60%. In questo scenario, anche un No al 46% – e quindi comunque sopra i 13 milioni di voti – sarebbe stato una base dalla quale ripartire subito perché “i voti del fronte del No non si sommano, i Sì sono tutti di Renzi”. Alla fine, i 13 milioni di Sì sono arrivati, ma il No ha letteralmente sfondato, l’affluenza è arrivata al 67% e ha premiato chi era contrario alla riforma: i No sono stati 19,4 milioni, appunto sei in più dei Sì. Nonostante questo, Luca Lotti ha già twittato: “Tutto è iniziato col 40% nel 2012. Abbiamo vinto col 40% nel 2014. Ripartiamo dal 40% di ieri!”. Una frase che sembra confermare il ‘piano B’ elaborato nelle scorse settimane. “Nessuno – ragiona più di un renziano doc in Parlamento – può vantare oltre 13 milioni di voti. Si voti in primavera, a questo punto. Che altro dobbiamo fare?”. La riscrittura della legge elettorale non è un ostacolo, per i renziani: “Se si trova un’intesa, si fanno le correzioni minime per avere due sistemi omogenei a Camera e Senato. Ma spetta a loro fare proposte, ora. Ci dicano come pensano di cambiarla e vediamo se c’è una maggioranza. Sennò si voti pure con il sistema attuale”, ovvero Italicum alla Camera e ‘Consultellum’ al Senato.
In realtà, un altro renziano aggiunge: “Se non si trova un’intesa ci penserà comunque la Consulta a correggere l’Italicum: è una legge scritta per un sistema di fatto monocamerale e i giudici non potranno che dichiarare il ballottaggio – e forse anche il premio – incongruo con il sistema in vigore per il Senato”. Dopodiché, al voto. Almeno secondo i renziani. Con Renzi che torna ad indossare i panni del rottamatore, forse persino lasciando la guida del Pd, e che prova a consolidare la maggior parte dei 13 milioni di Sì ottenuti ieri. Nessun passaggio del testimone, secondo questa tesi, nessuna continuità tra la maggioranza attuale e quella che porterà il Paese al voto: niente governi Delrio o Padoan e tantomeno Franceschini. Meglio una figura istituzionale come Grasso, dalla quale è più facile prendere le distanze durante la prossima, lunga, campagna elettorale. Bisognerà vedere se il premier avrà la forza e la voglia di seguire questa strada. Il capo dello Stato ha già richiamato gli “impegni” e le “scadenze” del Paese da mantenere, Roberto Speranza chiede ai gruppi Pd di essere il “perno della stabilità”, Dario Franceschini ripete al premier che se lui evita strappi la maggioranza che lo sostiene nel partito resterà fedele e lo ricandiderà al prossimo congresso e alle prossime politiche, nel 2018. Tocca a Renzi, ora, decidere che partita giocare.