La scelta di Ap dopo le Regionali: ancora Renzi, dividersi, andare a destra
I DUBBI DI ALFANO & C. Dalle urne esce fuori un’incapacità di Ncd di incidere sul voto e collocazione di Udc ondivaga, in alcune regioni con il centrosinistra e in altre con il centrodestra. di Maurizio Balistreri
di Maurizio Balistreri
Le elezioni Regionali di domenica scorsa, tra i tanti verdetti emessi (il Pd arretra, la Lega Nord stravince, Forza Italia si aggrappa all’ultimo salvagente, il Movimento 5 Stelle si radica pur con qualche defalliance) sembrano averne uno anche per Alleanza popolare, la coalizione ‘parlamentare’ alla quale partecipano Ncd e Udc: dichiarare finito il progetto centrista o spostarsi decisamente a destra, dalle parti di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi. I dati parlano chiaro, incapacità di Ncd di incidere sul voto e collocazione di Udc decisamente ondivaga, in alcune regioni con il centrosinistra e in altre con il centrodestra. I risultati elettorali, questo vale anche per il Pd, indicano che se Ap – come da sua origine, ne fanno parte transfughi di Forza Italia e centristi dell’Unione di centro che comunque erano in coalizione con Silvio Berlusconi – si fosse alleato nel suo insieme per esempio in Campania avrebbe sicuramente portato alla vittoria il governatore uscente di Fi Stefano Caldoro stoppando l’exploit di De Luca. Ma così non è stato, Ncd da un lato e Udc dall’altro (fatta eccezione per Casini). Ecco allora che i mal di pancia emergono forti. Ed arrivano soprattutto dalla base, da quei territori che non capiscono la linea governativa tenuta sin qui da Angelino Alfano.
Un Alfano che – non hanno dubbi parlamentari Ncd e Udc – “porta via voti, non è in grado di coagulare consenso alla base”. Anche perchè, viene fatto notare, il ministro dell’Interno “è espressione di palazzo, non di territorio”. In questi giorni il ministro dell’Interno ha però chiarito che “a livello nazionale non cambia nulla” e che anzi, rispetto alle ultime elezioni europee, nelle sette regioni dove si è votato Ncd e Udc hanno tenuto bene se non addirittura migliorato. Di fronte ad una base in subbuglio molti dirigenti di Alleanza popolare lasciano intendere come a questo punto si debba lasciare l’appoggio al governo e tornare – cosa che per altro tanti Ncd-Udc ripetono da mesi, sia pure con diverse intensità – al centrodestra. Più esplicita la posizione dalle parti del Nuovo centrodestra, a cominciare dall’ex capogruppo Nunzia De Girolamo, dove si chiedono primarie e l’apertura a Salvini – colui che risultati alla mano si propone come il leader vincente del centrodestra – e a Silvio Berlusconi, considerato comunque un punto di riferimento storico dell’area politica alternativa alla sinistra. Anche coloro che fino ad oggi erano filogovernativi, come Quagliariello (che da coordinatore di Ncd corre il rischio di vedersi addebitato il deludente risultato elettorale) e il capogruppo alla Camera Lupi, fanno aperture – declinate in termini diversi e più cauti da quelli per esempio più netti usati dalla De Girolamo – verso un posizionamento diverso da oggi di Ap. Entrambi infatti, viene ribadito, si rendono conto che “il territorio non regge la linea ondivaga di Alfano” e che c’è la necessità di aprire a nuove allenze.
Una scelta chiara, viene chiesta anche dalle parti dell’Udc, perché in mancanza si rischierebbe – alle prossime elezioni politiche – un annullamento dello schieramento centrista. Certo, l’Udc ha raccolto domenica un buon consenso (il 6% della Puglia, il 3,5% delle Marche) ma il ragionamento deve essere fatto in prospettiva. Un riflessione, una analisi complessiva del voto, annunciano dal partito di Cesa, sarà fatta in prospettiva in un Consiglio nazionale che sarà convocato a breve. La questione è delicata: pur di fronte ad alcuni risultati positivi dell’Udc è assolutamente necessario, viene detto nel partito centrista, ripensare il posizionamento. All’interno dell’attuale maggioranza o collocarsi fuori da quello che viene definito il “monocolore renziano”. Insomma sembra essere diventata una “alleanza stretta” quella di Ap con il Pd di Matteo Renzi perché, è il ragionamento che più ricorre in queste ore nella formazione centrista, si sta in una coalizione solo se si portano a casa risultati. E qui i risultati sembrano non arrivare. Per una De Girolamo che si dice pronta ad uscire dall’alleanza c’è un Cesa che sembra voler rimanere: ma il denominatore comune alla fine è il rapporto con Renzi e solo attraverso una definizione di questo si può probabilmente evitare la conclusione dell’esperienza di Ap.
Il premier non è un caso che in questi giorni non parli più del ‘partito della nazione’, impegnato come è a riflettere sull’emorragia di voti avuta dal Pd. E’ evidente come Renzi non possa permettersi un abbandono della coalizione da parte di Alleanza popolare, perchè se è vero che sul territorio complessivamente il valore dei centristi è di circa il 3% (in teoria quandi trascurabile) fra Camera e Senato Ap ha circa 70 parlamentari, indubbiamente decisivi. Insomma sembra vicino il momento della verità per la formazione guidata da Alfano, così come per gli altri partiti costretti – esclusa la Lega di Salvini – a guardare al proprio interno e a cercare di capire come certi progetti non abbiano funzionato e soprattutto come siano sempre meno coloro che vanno a votare e sempre più, tra i votanti, coloro che scelgono la demagogia e il populismo. Un momento della verità ancor più necessario per Alleanza popolare, che vorrebbe essere in grado di raccogliere intorno a sé la maggioranza dei moderati italiani.