di Maurizio Balistreri
“Il Jobs Act ci ha dato l’amara conferma che il problema non era l’articolo 18. L’idea che ciò che fa bene all’impresa fa bene all’Italia è scivolosa. La Fiat non può dirci che cosa dobbiamo fare e pagare le tasse all’estero. Dia consigli dove paga le tasse. Vorrei vedere che cosa direbbe le cancelliera Merkel se la Mercedes pagasse le tasse all’estero”. E’ quanto afferma in una intervista a un quotidiano Pierluigi Bersani, che aggiunge: “I dieci o quindici che contano nel capitalismo italiano si stanno aggiustandole le cose loro, chiedono solo che il governo sia amichevole, e se capita lo applaudono e si fanno applaudire. Poi hanno i giornali e c’è lo scambio, succedono cose che non sono potabili”.
L’ex segretario del Pd spiega anche che “da dieci anni siamo scesi sotto la media europea del prodotto interno lordo pro capite. La produttività non cresce. Si allarga la forbice dei redditi tra ricchi e poveri, nord e sud, vecchi e giovani. Cresciamo la metà dell’Europa. Le banche sono indotte a non mettersi a disposizione dell’industria ma a servire loro stesse, e a drenare il risparmio di cittadini che, fra l’altro, si sentono indifesi dalle prepotenze. Pare che serva la laurea in economia per entrare in banca”. E ancora. “Il nostro sistema industriale non vede chiara la prospettiva, si indebita solo a breve termine, quindi non investe sul futuro. I consumi balbettano, la spesa alimentare si contrae”. “Decidiamo il ruolo futuro dell’Italia – propone quindi Bersani -. Il made in Italy non può essere solo la moda o il cibo di qualità. È un saper fare in tutti i settori. Non possiamo certo rinunciare alla siderurgia o alla chimica o all’automotive e così via. Bisogna pensare a cosa fare in dieci anni, non in dieci mesi. Il governo chiami i sindacati, le imprese, le banche e proponga un patto per il lavoro e la produttività”.
CUPERLO RINCARA LA DOSE Affronta il discorso con una riflessione storica, che va oltre, almeno stando alla lettera, la domanda sulle dichiarazioni di Renzi che, dal Giappone, ha nuovamente ‘blindato’ l’Italicum. Gianni Cuperlo, nello studio di ‘L’Aria che Tira’ su La7, osserva allora che “all’indomani della guerra ci fu un dibattito, che coinvolse i principali intellettuali del Paese, sul tema se ci fosse stata o meno una cultura fascista. Bobbio, Garin, Del Noce, diedero risposte diverse ma, alla fine, la valutazione fu, in sostanza, che non era mai esistita una ‘cultura fascista’ ma una ‘cultura al tempo del fascismo’”. E allora, riprende l’esponente della minoranza Pd, “io non penso che alle spalle abbiamo avuto vent’anni che ci hanno consegnato una politica berlusconiana o, oggi, renziana ma penso che sia esistita una ‘politica al tempo di Berlusconi’, e Renzi, per ragioni anagrafiche, si e’ formato in quella, come molti 30/40enni in questo pezzo della storia della Repubblica, caratterizzata da tante cose positive e negative ma soprattutto da un tratto che ha pesato e pesa molto nel modo di interpretare la leadership, non solo – puntualizza – nel mio partito ma in generale sulla scena politica”. A questo clima Cuperlo collega “la crisi, il venire meno delle grandi culture popolari di riferimento che hanno costruito la solidita’ del sistema politico del Paese”, il che ha prodotto “leader molto capaci, spesso talentuosi, con enorme brillantezza sul piano comunicativo, che hanno una maggiore flessibilita’ e mobilita’ nello scegliere i temi delle loro campagne, le strategie, in relazione al contesto del tempo”.