“Io dico sempre a me stesso: quello che so non è interessante, è quello che no so invece a cui voglio dedicare la mia vita, per provare a capirlo”. Possiamo decidere di partire da qui, dalla fascinazione per quello che sta altrove, per addentrarci nel mondo creativo di Anish Kapoor, l’artista britannico di origine indiana che ha contribuito letteralmente a definire il panorama del contemporaneo con alcuni interventi scultorei clamorosi come quello, celeberrimo, del “Cloud Gate” di Chicago. A Brescia Kapoor ha inaugurato una sua nuova mostra alla Galleria Massimo Minini, nella quale è possibile trovare sia il lavoro scultoreo sia le superfici riflettenti che, insieme al colore pieno, sono una sorta di suo marchio di fabbrica.
Tutto però nasce da un luogo fisico, come lo studio dell’artista, che Kapoor intende in senso anche traslato. “Lo studio – ci ha detto – non è solo un luogo dove andare a fare cose, lo studio è una pratica, una pratica molto importante, perché qualunque cosa deriva dalla pratica”. Accanto all’approccio, però, c’è anche la filosofia dell’artista che, al netto del ruolo di superstar che spesso gli viene attribuito, per Kapoor nasce comunque da un forma di dissenso. “Siamo stati tutti educati per essere dei bravi cittadini – ha spiegato – ma l’educazione è anche una sorta di schiavitù: puoi pensare questo, non puoi pensare quest’altro, la tua cultura ti permette di fare questo e non fare quello… Essere un artista significa che tu reclami per te stesso la libertà da certi meccanismi”.
C’è quindi forse questo inestinguibile desiderio di affermarsi nell’urgenza plastica di molte sculture e, al tempo stesso, il tentativo conscio e misurato di confrontarsi con il ribaltamento di questa urgenza, l’allontanamento dalla plasticità per approdare alla forma pura, e per definizione respingente, degli specchi. Che in molti casi sono soglie tra dimensioni, gate a loro volta per l’appunto, verso un viaggio che non può che essere interiore. E quando si ragiona sull’arte in generale Kapoor pensa al tempo, al rapporto con il tempo e con il perdurare di una condizione di non conosciuto, anche nelle opere di un maestro come Rembrandt con cui l’artista britannico si è confrontato in una mostra al Rijksmuseum di Amsterdam. “Perché la sposa ebraica di Rembrandt è un grande dipinto? – si è chiesto Anish Kapoor – Perché sebbene continuiamo a guardarlo, ancora non capiamo che cosa succeda davvero in quel quadro”. Succede l’arte, ci verrebbe da rispondere, ma forse sarebbe troppo banale. Oppure no, ma in fondo non importa.