Cultura e Spettacolo

L’arte ai tempi del Fascismo: uno sguardo su quel presente

Secondo il filosofo Giorgio Agamben un’operazione fondamentale per guardare all’arte è quella in cui la si “purifica dallo spettatore”. In un certo senso qualcosa di simile avviene anche nella grandiosa (e non esente da problematiche) esposizione che Germano Celant (chi altri poteva osare) ha curato per Fondazione Prada a Milano dedicata all’arte e alla società italiana negli anni del Fascismo. “Post Zang Tumb Tuuum – Art Life Politics: Italia 1918-1943” è qualcosa che vuole essere di più di una mostra, oppure, se preferite, è un ampliamento del concetto di mostra che vuol espressamente ribadire che, citando un altro filosofo, Jacques Rancière, l’arte non esiste mai in astratto, ma si forma e prende forma in un determinato contesto storico e culturale. E dunque, per tornare all’inizio, in una sorta di purificazione dallo sguardo degli spettatori, condotta in nome di un più vasto ragionamento sul territorio nel quale l’arte che osserviamo insisteva. Anche, e soprattutto, in un periodo storico complesso, drammatico e a volte atroce come quello italiano degli anni tra le due Guerre.

Più di cento autori esposti, partendo, anche nel titolo, dal Futurismo come motore avanguardistico di spinta, ma guardando poi a tutto campo, alle arti applicate, alla progettazione architettonica, alla strategia politica di comunicare quella che era una Nuova Italia, anche attraverso l’arte. Per far questo Fondazione Prada e Celant hanno scelto, appoggiandosi allo studio newyorchese 2×4, di “ricostruire le condizioni materiale e fisiche” dalle presentazione originale delle opere, allestendo 24 ricostruzioni parziali di sale espositive pubbliche e private. Una scelta che, anche in questo caso, gioca ancora sulla complessità, sfidando, in un luogo che ha saputo dare ospitalità a progetti di contemporaneità spinta, il gusto del nostro tempo, anche a livello di allestimenti. Certo, si tratta di un artefatto, quindi doppiamente interessante dal punto di vista concettuale, ma la dimensione “reale” della mostra vorrebbe, almeno in parte, liberarsi dal concettuale per tornare allo spirito del tempo, per quanto oscuro potesse essere. Accanto ai Balla, ai Depero, ai Morandi ci sono le statue di Adolfo Wildt, che più di altre opere hanno pagato un prezzo al successivo cambio di stagione politica, almeno a livello di gusto, ma ci sono anche documenti, lettere, riviste, fotografie private, cinegiornali e manifesti che provano a dare una forma più compiuta alla temperie di quel presente. Che, tornando ad Agamben, molti di noi non hanno vissuto, ma che comunque è stato un presente e come tale la mostra in Fondazione Prada prova a farcelo rivivere oggi, come contemporaneità.[irp]

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redazione