Cultura e Spettacolo

L’imperfezione e la felicità: tutto Lartigue ai Tre Oci a Venezia

Che cos’è, o, meglio, come si rappresenta la felicità? Qual è, se esiste, un segreto per fissarla nella fotografia? È possibile, se credete, partire da queste domande per addentrarsi nella mostra che la Casa dei Tre Oci a Venezia dedica a Jacques Henri Lartigue, una retrospettiva che attraversa l’intera carriera del fotografo francese, dagli scatti giovanili di inizio Novecento agli ultimi lavori negli Anni 80. Un percorso eclettico, pressoché impossibile da ridurre in definizioni secche (e spesso semplificatorie), che vive della continua curiosità dello sguardo e della ricerca di meraviglia. Parola preziosa, alla quale le 120 immagini di Lartigue ci aiutano a dare credito.

Divenuto famoso a quasi 70 anni, grazie alla mostra dedicatagli dal MoMA di New York nel 1963, oggi è considerato un classico della fotografia, ma, e viene voglia di citare Italo Calvino, si tratta di un classico della leggerezza, dello stupore, inteso non come ricerca dell’eclatante, bensì come capacità di cogliere storie in quasi ogni momento della vita. Le fotografie di Lartigue, per rubare un titolo proprio a Calvino, somigliano a una Collezione di sabbia: strana, imprevedibile, composta di granelli tutti diversi, se guardati da vicino. I curatori della mostra ai Tre Oci – Marion Perceval, Charles-Antoine Revol e Denis Curti – parlano di un “microcosmo fotografico” che Lartigue ha difeso anche nei momenti più difficili del Novecento. Un sorta di uovo magico dentro il quale proteggere e osservare cose meravigliose, indipendentemente dal mondo fuori. Ma, se si guarda bene, quella sensazione di felicità che, senza dubbio, si coglie nelle sue fotografie, è figlia di anomalie, di errori, di, per così dire, violazioni della realtà, come per esempio le sue celeberrime auto deformate dalla velocità. E qui ci sembra che stia la lezione più interessante, la lezione di leggerezza definitiva: la meraviglia dell’imprecisione, che è l’esatto opposto della retorica del gusto o della dittatura del pensiero unico.

La felicità dell’errore che diventa atto artistico e perfino politico in fondo. Anche per questo il microcosmo di Lartigue continua a parlare al pubblico e a essere vivo e fresco e, naturalmente, felice. E se è lo stesso fotografo a dire di volere fermare il tempo per trattenere “ciò che vuole ricordare”, ci permettiamo di aggiungere che la cosa che colpisce di più è la sua capacità di cogliere il presente, di restituircelo nella sua intera vivezza e consapevolezza. Nella sua presenza. Un ultimo accenno, tra le tante immagini che sono entrate nell’immaginario collettivo, lo merita il bellissimo ritratto della moglie del fotografo, Bibi, scattato nel 1920 a Chamonix mentre la ragazza è seduta sulla tazza del gabinetto. Lo sguardo di lei – divertito, affettuoso, intimo – vale da solo più di molte definizioni di bellezza e, per l’appunto, di felicità. Non c’era bisogno di andare troppo lontano. La mostra veneziana, che segna la riapertura della Casa dei Tre Oci dopo l’emergenza Covid, è prorogata fino al 10 gennaio 2021.

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redazione