L’Islanda piange il ghicciaio Okjokull, ma non sarà il solo

19 agosto 2019

Un funerale per un ghiacciaio, scomparso a causa del riscaldamento globale. In Islanda ambientalisti e autorità hanno detto addio all’Okjokull, che per secoli ha coperto la vetta del vulcano Ok e di cui ora non resta più nulla, primo ghiacciaio dell’isola artica a essere perduto in seguito all’aumento delle temperature globali. Il primo ministro islandese, Katrin Jakobsdottir, ha posto una targa commemorativa, rivolta ai posteri, nella quale si legge che “nei prossimi 200 anni tutti i nostri ghiacciai si prevede che faranno la stessa fine. Questo monumento testimonia che siamo coscienti di ciò che sta accadendo e di ciò che è necessario fare. Solo voi potete sapere cosa abbiamo fatto”. “Io spero – ha aggiunto la primo ministro – che questa cerimonia sarà di ispirazione non solo per noi qui in Islanda, ma anche per il resto del mondo, perché quella che stiamo vedendo qui è solo una delle facce della crisi climatica”.

Il ghiacciaio Okjokull è stato dichiarato inattivo dagli scienziati nel 2014, quando si scoprì che la neve si scioglieva più rapidamente di quanto si accumulasse sulla vetta dell’ex vulcano e che non c’era più pressione sufficiente per permetterne il movimento. Da quel momento il nome, e questo elemento forse rende testimonianza ancora più evidente degli effetti reali e pratici del cambiamento climatico, è stato cambiato da Okjokull in solo Ok, poichè il suffisso “jokull” significa in islandese “ghiacciaio”. Ma le implicazioni di questo evento per l’Islanda vanno anche al di là della sfera climatica, peraltro già di suo enormemente importante non solo per l’isola, e investono l’intera vita del Paese, a partire dalla sua economia. Il riscaldamento globale, infatti, sta cambiando la natura stessa della pesca in Islanda: se fino a pochi anni fa le esportazioni del pesce capelano erano una voce importantissima del bilancio nazionale, ora questa sta svanendo, perché i capelani si sono spostati alla ricerca di acque più fredde. E, più in generale, il sistema economico islandese rischia la recessione, anche e soprattutto a causa del radicale mutamento delle condizioni dell’ambiente.

Tra gli islandesi la consapevolezza dell’impatto umano nei cambiamenti climatici, o meglio nell’accelerazione del fenomeno, è molto forte. Come ha raccontato un reportage del New York Times nei giorni scorsi molte fattorie si stanno attrezzando per arrivare rapidamente alla neutralità delle emissioni, che qui si punta a ottenere intorno al 2040. Ma per gli ambientalisti anche questo non basta per permettere all’Islanda di restare una nazione prospera e un modello. E se questo discorso vale per uno Stato di soli 350mila abitanti, pur date condizioni molto particolari, si aprono scenari inquietanti per quanto riguarda le possibili conseguenze dei cambiamenti climatici nel resto del mondo, in aree e Paesi che già di partenza godono di condizioni ancora più difficili e vaste rispetto all’Islanda. Che comunque, con la sua perifericità nordica, oggi sembra un campanello d’allarme impossibile da non ascoltare.

“Una gran parte dell’energia rinnovabile – ha aggiunto la primo ministro Jakobsdottir – viene prodotta nei nostri fiumi glaciali, e da questi produciamo energia elettrica: dobbiamo essere consapevoli di questo fatto. Perché la scomparsa del ghiacciaio avrà effetti su tutto il nostro sistema energetico”. E il discorso della premier, pronunciato proprio davanti al defunto Okjokull, assume un valore che va al di là della specifica vicenda artica e, in qualche modo, investe tutti noi. La cerimonia, poi, ha voluto essere anche un momento di testimonianza visiva di ciò che sta accadendo, un modo per ricordare che il tempo passa senza che il mondo affronti davvero di petto il tema del riscaldamento globale, che poi è il tema del ragionamento sulla possibilità che la specie umana continui ad avere, nel futuro prossimo, non remoto, un ambiente favorevole in cui vivere (ossia le condizioni per poter sopravvivere, di questo si sta parlando).

Tra i partecipanti anche uno scienziato dell’Università di Berlino, Julien Weiss, che ha raccontato alla AFP le proprie sensazioni: “Il fatto che un ghiacciaio scompaia è un simbolo. Del riscaldamento globale non si ha una esperienza quotidiana, è qualcosa che su scala umana avviene lentamente, mentre è velocissimo su scala geologica. Ma osservare la sparizione di un ghiacciaio è un’esperienza anche visuale. Per questo ho voluto essere qui”. Gli occhi del professore tedesco, insomma, bene aperti di fronte a un evento che è prova manifesta e, appunto, visuale, del cambiamento climatico. Un evento di portata colossale (un “iperoggetto” direbbe il filosofo Timothy Morton) con il quale, nonostante 25 anni di annunci, ancora la nostra civiltà non sembra volere fare realmente i conti. askanews

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