L’hanno bollata vera e propria propaganda. Una mossa in vista delle Politiche dello scorso marzo, per portare più consensi alla Lega di Matteo Salvini, concorrente di Forza Italia per la leadership del centrodestra. E, a distanza di circa un anno, sui referendum sull’autonomia di Lombardia e Veneto, i maligni sembrano aver ragione. Perché tutto è come prima del 22 ottobre, quando con una maggioranza bulgara, emersa dal voto sia del 57 per cento dei veneti (si doveva superare il quorum del 50% più), sia del 39 per cento dei lombardi (non era previsto il quorum) gli elettori hanno detto sì ai quesiti referendari per tagliare qualche laccio che li lega all’ex “Roma ladrona”.
E non poteva essere diversamente, dato che parliamo di referendum consultivi con i quali le rispettive giunte regionali hanno chiesto agli elettori, in sostanza, il mandato politico per intavolare una discussione con il governo. Ma ce l’avevano già, questo mandato. Come ha fatto, d’altronde, senza alcuna investitura popolare, l’Emilia Romagna col solo voto del consiglio regionale, permettendo al governatore Stefano Bonaccini di andare a interloquire con l’allora governo Gentiloni, proprio assieme ai colleghi Roberto Maroni e Luca Zaia.
E così hanno fatto i tre richiedenti “più autonomia” lo scorso fine febbraio. Un appuntamento chiesto a gran voce subito dopo l’apertura delle urne dai due governatori leghisti per “far presto”. Un appuntamento chiesto dai due governatori leghisti a un governo dimissionario, quindi che lascia il tempo che trova, e di cui finora ha prodotto una foto ricordo che li ritrae con il documento dell’accordo in mano siglato a Palazzo Chigi. Certo, nel documento, ci sono alcuni punti che danno maggior respiro alle Regioni, ma sempre all’interno della Carta costituzionale e che nulla hanno a che vedere con la volontà popolare. Perché è inutile ripeterlo per l’ennesima volta, parlare di autonomia non vuol dire Regione a Statuto speciale come la Sicilia, per meglio intenderci, in quanto servirebbe una nuova legge costituzionale e non pare neanche il caso di pensarlo.
Un fatto però è certo, dal 28 febbraio scorso, i due governatori leghisti, hanno spento i riflettori sul referendum. Nessuno ha più premura di confrontarsi con qualcuno. D’altronde, Maroni e Zaia l’obbiettivo l’hanno raggiunto. Hanno voluto quell’accompagnamento di popolo che non è previsto dalla nostra Costituzione per richiesta di regione autonoma, ma che forse ha portato a marzo qualche consenso in più al Corroccio. Per non ricordare che queste urne sono costate sessantaquattro milioni di euro, soldi pubblici. La Lombardia, in particolare, ha speso molto più del Veneto, quasi 50 milioni di euro contro 14 milioni. I costi sono superiori a causa dell’acquisto di 24mila tablet che, come ha detto lo stesso Maroni, dopo il voto venivano donati alle scuole. In soldoni, un business da 23 milioni per l’acquisto dei tablet e dei software relativi.
Altri 25,6 milioni sono serviti per pagare gli scrutatori, operazioni vari e campagna elettorale. Ma anche migliaia di opuscoli dal titolo “Scopri perché la Lombardia è una regione speciale”. Piace ricordare che uno dei tanti pallini di Maroni è trasformare la Lombardia come la Catalogna. E, sempre in tema di soldoni, il Veneto invece, come detto, è stato più parsimonioso, ha speso 14 milioni. D’altronde, si è votato in modo tradizionale, con scheda e matita. Tuttavia, anche Zaia non s’è fatto mancare cento mila copie di un opuscolo intitolato “Le 100 domande dei veneti a Luca Zaia”.