Peggio di così non poteva andare. La settimana dei mercati si è riaperta con una nuova e drammatica ondata di crolli a catena, generalizzata a tutti i listini. E che partendo dal dilagare dell’allarme coronavirus, i cui effetti sono degenerati in vendite da panico tra gli operatori, ha avuto come ulteriore fattore scatenante la guerra di ribassi sui prezzi che sta scoppiando tra i produttori di petrolio. A farne le spese sono state prima le Borse asiatiche, poi in sequenza quelle europee con Milano che ancora una volta si è trovata a interpretare lo sgraditissimo ruolo di maglia nera, mentre l’Italia è sempre più il Paese che spicca come più colpito nell’Ue dall’epidemia. A fine scambi a Piazza Affari l’indice Ftse-Mib ha lasciato sul terreno l’11,17%. Uno scivolone analogo a quello segnato in apertura dopo che per lunghi minuti l’indice non riusciva nemmeno a fare prezzo a causa de meccanismo d interruzione delle vendite per eccesso di ribasso.
Un calo più marcato si verificò unicamente nel 2016, a seguito del referendum sulla Brexit in Gran Bretagna (e oggi questa vicenda appare molto meno grave di quanto minaccia di essere l’epidemia). La portata storica del crollo di oggi risulta più evidente se si tiene presente che è stato perfino peggiore di quello che a inizio ottobre del 2008 seguì il crack di Lehman Brothers. E peggiore del crollo successivo agli attentati dell’11 settembre 2011. Nel resto d’Europa non è andata granché meglio. Francoforte ha chiuso in caduta del 7,94%, Londra è crollata del 7,69%, Parigi dell’8,39%, Madrid del 7,96%.
Invece sono piovuti acquisti sugli asset ritenuti più sicuri e stabili, come l’oro, schizzati ai massimi dal 2012 con una capatina dell’oncia sopra i 1.700 dollari, e i titoli pubblici statunitensi, che hanno visto i rendimenti collassare così a nuovi minimi storici. Questi movimenti hanno causato a catena altri riposizionamenti e chiusure di carry trade sul dollaro, facendo schizzare l’euro fino a 1,15 sul biglietto verde, sui massimi da oltre un anno. Apprezzamenti della valuta condivisa che non potrebbero capitare in un contesto peggiore, creando ulteriori pressioni sulla Bce che giovedì terrà un Consiglio direttivo (calendarizzato da mesi) da cui è attesa la sua riposta all’emergenza, dopo il taglio dei tassi della Fed. Intanto lo sfaldamento dell’alleanza tra produttori di petrolio ha creato un ulteriore elemento di panico. Il non accordo su nuovi tagli di venerdì scorso al vertice “Opec Plus”, infatti, innanzitutto comporta anche un non accordo sul proseguire i tagli quelli già in essere. E quindi, teoricamente, da fine marzo porte aperte a qualunque aumento produttivo. In più, secondo concordanti indiscrezioni di stampa, l’Arabia Saudita per ripicca starebbe già offrendo sconti consistenti sul suo greggio, in modo da mettere sotto pressione la Russia.
L’effetto concomitante di meno domanda, più produzione e sconti ha avuto un esito drastico sulle quotazioni. Sulle prime i prezzi de barile hanno segnato cadute dell’ordine del 30%, con precedenti unicamente nella prima guerra del Golfo, risalente al 1991. E secondo alcuni esperti al momento c’è addirittura la peggiore combinazione ribassista sui prezzi dalla grande depressione degli anni ’30 del secolo scorso. Livelli dei prezzi che metterebbero in crisi la redditività de comparto e finirebbero per poter causare interruzioni produttive. Il barile di Brent, il greggio di riferimento del mare del Nord, che la scorsa settimana si scambiava ampiamente sopra i 50 dollari è caduto fino ad appena 31 dollari. In serata riduce solo in parte del perdite ad un meno 20% a 36,03 dollari. Il West Texas Intermediate, che era crollato a 27,34 dollari, si attesta al meno 21% a quota 32,79 dollari. Già ad oggi diversi titoli del settore energetico hanno accumulato crolli tra il 35 e il 40% da inizio anno. Il gigante saudita Aramco ha visto le quotazioni sul Tadawul scendere per la prima volta sotto il prezzo dellaff recente Ipo.
Alcuni indici sui derivati, come i futures sul Cboe Volatility Index, meglio conosciuto come “Vix”, mostrano che molti investitori si attendono ormai una protratta fase di turbolenza, volatilità e tensione dei mercati. Alcune banche d’affari riportano indicatori sulla portata della crisi nell’economia reale, come le vendite di smartphone in Cina che a febbraio sarebbero più che dimezzate. Ma in ultima analisi quello che sarà determinante sarà la durata della fase acuta di questa emergenza, sempre che sia già arrivata, che si sta estendendo a un numero sempre maggiore di Paesi.
WALL STREET
Si chiude in forte calo la peggiore giornata a Wall Street dalla crisi finanziaria del 2008, a causa della guerra del petrolio scoppiata tra Arabia Saudita e Russia e dell’aumento delle preoccupazioni per la diffusione del coronavirus. Il Dow Jones ha perso 2.018,43 punti, il 7,8%; l’S&P 500 ha ceduto 226,41 punti, il 7,62%; il Nasdaq ha lasciato 624,94 punti, il 7,29%. I timori avevano portato alla sospensione delle contrattazioni per 15 minuti, subito dopo l’apertura, quando lo S&P 500 era sceso di 7 punti percentuali, facendo salire l’indice Vix sulla volatilità ai massimi dalla crisi finanziaria del 2008.
Le forti preoccupazioni hanno spinto gli investitori verso i beni rifugio: i rendimenti del decennale sono tornati sopra lo 0,4%, dopo essere scesi allo 0,318%, minimo storico, mentre il trentennale è sceso per la prima volta sotto lo 0,9% in giornata, tornando poi sopra l’1%. Il petrolio Wti ha chiuso in ribasso del 24,6% a 31,13 dollari al barile, ai minimi degli ultimi quattro anni. Si tratta della seconda peggiore giornata della storia per il Wti, da quando nel 1983 ha cominciato a essere quotato al Nymex, dopo il 17 gennaio del 1991, quando scoppiò la guerra del Golfo.