“A che serve vivere, se non c’e’ il coraggio di lottare?”. Risuonano ancora oggi le parole del giornalista Pippo Fava, ucciso il 5 gennaio del 1984, mentre andava a prendere la nipote che recitava in Pensaci, Giacomino! al teatro Verga di Catania. Non fece neanche in tempo a scendere dalla sua Renault 5 che fu attinto da cinque proiettili della famigerata calibro 7,65, arma di molti omicidi di mafia. Eppure Fava, gia’ delegittimato da tanti “benpensanti” colleghi in vita, fu drammaticamente screditato nel momento della morte. L’omicidio, infatti, fu etichettato come delitto per questioni di donne, con titoloni che parlavano di omicidio per “movente passionale”.
E per chi proprio non credeva alle donne, ecco la seconda pista accreditata: il movente economico, per le difficolta’ in cui versava la sua rivista “I Siciliani”. Persino i funerali diventarono terreno di scontro. L’allora sindaco di Catania, Angelo Munzone, affermo’ che la mafia a Catania non esisteva. Solo successivamente, l’evidenza delle denunce giornalistiche di Pippo Fava sulle collusioni tra Cosa nostra ed i cavalieri del lavoro catanesi, quella zona grigia in cui convergono gli interessi della mafia, dell’economia e della politica, verra’ rivalutata dalla magistratura inquirente. Nel 1998 si e’ concluso a Catania il processo “Orsa Maggiore 3” dove per l’omicidio di Giuseppe Fava sono stati condannati all’ergastolo il boss mafioso Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso come organizzatori (poi assolti), ed Aldo Ercolano come esecutore assieme al reo confesso Maurizio Avola.