Il Medioriente è in fibrillazione. E tutto il mondo farebbe bene a tenerne conto. In realtà, si tratta di una tendenza in atto da tempo, sulla scia delle feroci tensioni planetarie, all’interno dell’Islam, tra il mondo sunnita, egemonizzato dall’Arabia Saudita, e quello sciita, a guida iraniana. Ma il tutto ha subito una brusca accelerazione il 4 novembre con le dimissioni dell’ex primo ministro libanese Saad Hariri, convocato per un colloquio urgentissimo con re Salman dell’Arabia Saudita, il suo principale sponsor regionale. Hariri, come suo padre, l’ex primo ministro Rafiq al-Hariri, dilaniato da un’autobomba nel febbraio 2005, ha la doppia cittadinanza libanese e saudita e si è affrettato a recarsi a Ryad. Subito dopo l’arrivo, le sue dimissioni a sorpresa sono giunte come uno choc anche perché diffuse dal network televisivo al Arabiya, emittente degli Emirati Arabi Uniti e non del Libano. Il primo ministro di Beirut ha giustificato la decisione accusando il movimento sciita libanese Hezbollah e il suo alleato iraniano di strangolare il Libano, dichiarando anche di temere di essere assassinato, come già toccato in sorte al padre. Di sicuro, Hariri non pensava di dimettersi visto che aveva pianificato a Beirut nei giorni seguenti incontri con il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e altri relativi all’emergenza idrica. Ma ciò che più preoccupa è l’attacco ad Hezbollah il cui leader, Hassan Nasrallah, che aveva appoggiato l’accordo che aveva portato al governo Hariri, ha subito accusato l’Arabia Saudita di avere costretto il premier a dimettersi.
Disarmare, come richiesto dall’ex premier libanese, il movimento integralista, l’unico partito libanese ad avere mantenuto gruppi armati dopo la fine della guerra civile in Libano combattuta dal 1975 al 1990, ed egemone nel sud del paese e interprete riconosciuto della principale minoranza del paese, gli sciiti, significherebbe scatenare un’altra guerra civile. Con esiti facilmente prevedibili. A tutto ciò si deve aggiungere, oltre alla situazione sempre più esplosiva in Yemen, una coincidenza drammatica che non appare certo casuale. Poco dopo l’arrivo di Hariri a Ryad, infatti, è scattata la “notte dei lunghi coltelli saudita” lanciata dal figlio dell’attuale re Salman, Mohammed bin Salman, principe ereditario, nonché primo vice primo ministro e ministro della Difesa dell’Arabia Saudita. Nella purga di casa Saud, sono stati arrestati 11 principi, tra cui il ricchissimo Alwaleed bin Talal, e diversi ex ministri e funzionari, tutti accusati di corruzione. Mandando così in frantumi il delicatissimo compromesso tra famiglia reale, autorità religiose e comunità tribali che tiene in piedi il fragile assetto statale saudita. Insomma, sempre vittima designata delle guerre altrui, il Libano sembra essere destinato – sullo sfondo della guerra in Siria, dell’imminente crollo dell’Isis e delle minacciose dichiarazioni della Casa bianca sull’accordo nucleare iraniano – a fungere da detonatore di una resa dei conti finale tra Ryad e Teheran con l’interessato e più o meno sotto traccia coinvolgimento di Israele e degli Stati Uniti, da sempre dichiarati nemici della Repubblica islamica dell’Iran. Uno scontro le cui ripercussioni potrebbero essere apocalittiche.