Secondo il New York Times, nelle settimane successive alla morte del ricercatore italiano gli Stati Uniti avevano raccolto “intelligence esplosiva” dall’Egitto, ossia “la prova che esponenti della sicurezza egiziani avevano rapito, torturato e ucciso Regeni”. “Avevamo prove incontrovertibili sulla responsabilità ufficiale dell’Egitto – ha detto un funzionario dell’ex amministrazione di Barack Obama – non c’erano dubbi”. E su raccomandazione del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti trasmisero “tale conclusione al governo Renzi”, ha riferito il Nyt. “Ma per non identificare la fonte, gli americani non condivisero gli elementi grezzi di intelligence, nè dissero quale agenzia di sicurezza ritenessero responsabile della morte di Regeni”, ha precisato la testata americana. “Non era chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, di uccidere Regeni”, ha detto un altro ex funzionario dell’amministrazione Obama. Quello che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente consapevole delle circostanze della morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che la leadership ne fosse a conoscenza – ha detto il funzionario – non so se avesse responsabilità. Ma sapeva. Sapeva”.
Immediata la smentita del governo italiano. Ieri nella tarda serata, fonti di Palazzo Chigi hanno precisato come “nei contatti tra amministrazione Usa e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’omicidio non furono mai trasmessi elementi di fatto, come ricorda tra l’altro lo stesso giornalista del New York Times, né tantomeno ‘prove esplosive'”. Ed è stato altresì sottolineato dalle stessi fonti del governo italiano che “la collaborazione con la procura di Roma in tutti questi mesi è stata piena e completa”. La vicenda di Regeni venne discussa all’inizio del 2016 dall’allora segretario di Stato americano John Kerry con l’omologo egiziano Sameh Shoukry in un incontro a Washington. Fu una conversazione “piuttosto burrascosa”, secondo quanto riferito al Nyt da un funzionario di Obama, sebbene lo staff di Kerry non sapesse dire se Shoukry non volesse collaborare o se semplicemente fosse all’oscuro della verità. L’approccio brusco di Kerry “sorprese” l’amministrazione, ha sottolineato un altro funzionario, perchè era noto che il segretario di Stato usava guanti di velluto verso il Cairo. Nel frattempo gli investigatori italiani impegnati al Cairo venivano ostacolati in ogni modo. Nella sua ricostruzione delle indagini, il Nyt ricorda che i testimoni sembravano essere stati addestrati, i filmati delle telecamere di sorveglianza della metropolitana erano stati cancellati, le richieste sui metadata di milioni di telefonate erano state respinte sulla base che avrebbero compromesso i diritti costituzionali dei cittadini egiziani.
“Alcuni coraggiosi testimoni egiziani incontrarono gli inquirenti nel loro ufficio provvisorio al piano interrato dell’Ambasciata italiana. Ma anche lì gli italiani non si sentivano a lotro agio”, racconta il Nyt, tanto che lo stesso ambasciatore di allora, Maurizio Massari, “smise subito di usare mail e telefono per questioni delicate, ricorrendo a una vecchia macchina per cifrare i messaggi da inviare a Roma”. “I funzionari italiani temevano che gli egiziani che lavoravano all’ambasciata italiana passassero le informazioni alle forze egiziane; notarono che le luci erano sempre spente in un appartamento davanti all’ambasciata, un buon punto dove piazzare un microfono direzionale”. Ma gli inquirenti italiani non dovevano solo vederserla con le agenzie di sicurezza egiziane, ha rimarcato il giornalista del Nyt, ma anche con le “dolorose spaccature interne allo Stato italiano”, in particolare tra la Farnesina e i servizi di intelligence per la collaborazione di questi ultimi con l’Eni. “C’erano altre priorità. I servizi di intelligence italiani avevano bisogno dell’aiuto egiziano per contrastare lo Stato islamico, gestire il conflitto in Libia e monitorare i flussi migratori attraverso il Mediterraneo – ha ricordato il giornalista – e l’azienda energetica italiana, Eni, aveva i propri interessi. Settimane prima dell’arrivo al Cairo di Regeni, Eni aveva annunciato una grande scoperta: il giacimento di gas Zohr, al largo della costa settentrionale dell’Egitto, che si stima contenga 850 miliardi di metri cubici di gas, pari a 5,5 miliardi di barili di greggio”.
Di fronte delle crescenti pressioni per risolvere il delitto di Regeni, anche l’amministratore delegato Claudio Descalzi intervenne presso le autorità egiziane e “discusse il caso almeno tre volte con il presidente Sisi”. A conclusione dell’inchiesta, il New York Times rilancia diversi scenari sul perchè Regeni “sia stato ucciso come un egiziano”. Una teoria è che si sia trattato dell’opera di qualche funzionario isolato, dal momento che è noto che anche gli ufficiali di più basso livello della Sicurezza nazionale, che risponde al ministero dell’Interno, godono di parecchia autonomia su cui poche volte sono chiamati a rispondere. Ma se anche fosse questo il caso, perché torturare un cittadino straniero e far ritrovare il cadavere?, è l’interrogativo rilanciato dal Nyt. Regeni potrebbe essere fino in mezzo allo scontro tra le due agenzie di sicurezza egiziane, Sicurezza nazionale e Intelligence militare, e la sua morte usata dall’una per mettere in imbarazzo l’altra. Infine, la “più allarmante ipotesi è che la morte di Regeni fosse un messaggio deliberato, un segnale sul fatto che sotto Sisi anche un occidentale può essere sottoposto ai più brutali eccessi”. “Un funzionario di Obama ha detto di credere che qualcuno tra gli ‘alti gradi’ del governo egiziano potrebbe aver ordinato la morte di Regeni per ‘mandare un messaggio agli altri stranieri e ai governi stranieri di smettere di giocare con la sicurezza dell’Egitto”, ha concluso il Nyt.