Stava cercando di fuggire assieme alla mamma, al fratellino e a uno zio ma la barca sulla quale sarebbe dovuto salire si è rovesciata e per Moohammed non c’è stato nulla da fare. Ancora un’immagine che mai avremmo voluto vedere. Ancora un bimbo annegato mentre cerca di fuggire dalla persecuzione e dalla guerra. Mohammed Shohayet aveva 16 mesi ed è morto nelle acque del fiume Naf in Birmania. Lui e la sua famiglia facevano parte dei Rohingya, una minoranza di religione musulmana concentrata nel nord-ovest del Paese, perseguitata e costretta a fuggire. Il papà del piccolo Mohammed era partito prima per raggiungere il campo di raccolta di Leda a Teknaf, in terra bengalese, per verificare che fosse un posto sicuro. La famiglia avrebbe dovuto seguirlo.
IL PAPA’ “Il nostro villaggio è stato attaccato e non potevamo restare: chi è rimasto a casa è stato ucciso e bruciato dai soldati birmani – racconta il papà – Mia moglie e i miei figli stavano per salire sulla barca ma la polizia ha cominciato a sparare. La barca non ha retto al panico delle persone che volevano salire e si è rovesciata”. Per chi non sapeva nuotare è stata la morte. Come per Mohammed. La foto di quel corpicino senza vita, il volto immerso nel fango, sta facendo il giro del mondo. Come quella di Aylan Kurdi, il bambino trovato su una spiaggia turca nel settembre 2015, annegato mentre cercava di sfuggire con la famiglia alla guerra civile in Siria.
POLIZIOTTI ARRESTATI Perché nessuno avrebbe voluto rivedere una scena così terribile. E invece è accaduto ancora. In Myanmar, negli ultimi giorni, diversi poliziotti sono stati arrestati proprio a seguito della diffusione di video nei quali sono ripresi mentre picchiano e umiliano civili in villaggi Rohingya. In un filmato si vedono gli agenti percuotere una donna ormai a terra, che prova a proteggersi con le mani sulla testa. In un altro video, diffuso anche sui social network, i poliziotti sono ripresi mentre bastonano un uomo. Secondo fonti concordanti, sarebbero stati già 50 mila i Rohingya costretti ad abbandonare i propri villaggi in conseguenza dell’avvio di un’offensiva dell’esercito seguita ad alcuni agguati di gruppi armati in zone di frontiera. A confermare gli arresti degli agenti è stato l’ufficio di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace ora ministro degli Esteri con un ruolo chiave nella definizione della linea politica nell’ex Birmania.