Cultura e Spettacolo

Nan Goldin, quando la fotografia diventò vita e arte

La fotografia è, ormai da anni, un pezzo irrinunciabile di ciò che chiamiamo arte contemporanea. Ma non sempre è stato così e uno dei momenti in cui si è cominciato ad abbattere le divisioni possiamo oggi certamente associarlo al lavoro di Nan Goldin, artista statunitense che negli anni Ottanta ha aperto una nuova via. Ora la Triennale di Milano la celebra con la mostra “The Ballad of Sexual Dependency”: una grande installazione composta di circa 700 immagini a colori accompagnate da una colonna sonora altrettanto ampia e variegata. Una pietra miliare di un certo tipo di approccio, ma anche un’opera in continua evoluzione. Che permette anche di rivivere una certa atmosfera sia dal punto di vista sociale, sia da quello del mondo dell’arte. “Quando ho cominciato a fare foto a colori – ha raccontato Nan Goldin all’inaugurazione della mostra – la gente mi diceva che quella non era arte, era vita reale ed erano scandalizzati dal fatto che qualcuno lo facesse. Secondo loro l’arte doveva essere immaginazione, cosa che io non ho mai avuto. Semplicemente tenevo gli occhi aperti. Il mondo è così strano, non avevo bisogno di immaginazione”.

La mostra è anche il primo evento frutto della collaborazione tra il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo e la Triennale. Ma, come ha spiegato il curatore Francois Hébel, il risultato finale è molto diverso da quello di una tradizionale mostra di fotografia. “Non è che copriamo i grandi muri della Triennale di foto – ha spiegato riferendosi ai primi colloqui con la Triennale – facciamo vedere l’essenza, che è l’audiovisuale. Questa è l’arte di Nan Goldin, pura, e la prendiamo com’è ed è questo che fa la differenza”. Una differenza che si manifesta minuto dopo minuto, mentre si assiste rapiti alla proiezione, quando ci si rende conto che quello “scandalo” e quella “provocazione” che troppo comunemente si associano a certe immagini intime o sessuali sono solo un contesto o, se volete, una patina superficiale. Sotto, scavando un po’ più in profondità, come Nan Goldin stessa ha invitato a fare, si trova altro. Si trova soprattutto il senso di una poetica di vicinanza alle persone, si sente risuonare la vita, guardata per l’appunto a occhi aperti, senza negarsi pure la brutalità di un flash. Ma l’esito, audiovisuale, ci parla sostanzialmente di tenerezza. Dopo avere esplorato le potenzialità del mezzo fotografico, comunque, Nan Goldin dice che oggi non fotografa più e che preferisce un altro mezzo espressivo. “Ho cominciato a dipingere – ha concluso l’artista – e spero che i miei quadri possano essere buoni come le mie migliori fotografie”.

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