Uno spazio ambiguo, nel quale offrire ospitalità ad artisti molto diversi tra loro, capaci però di dare un contributo comune alla narrazione, ovviamente labirintica, che il curatore ha immaginato e l’allestimento ha poi costruito. Il Padiglione Italia alla 58esima Biennale d’arte di Venezia è un luogo a tutto tondo, che Milovan Farronato ha pensato partendo da un testo di Italo Calvino che teorizzava la necessità di sfruttare, per la letteratura, tutti i linguaggi possibili.
Il ragionamento dello scrittore passa, nella visione di Farronato, dalla parola all’arte, e diventa un display capace di armonizzare opere diverse, come quelle di Liliana Moro, Chiara Fumai ed Enrico David, prendendo spesso una via inattesa. “Né altra né questa: la sfida al labirinto” è un titolo forte, che implica una scelta spesso rischiosa, un viaggio che potrebbe anche portare a un naufragio. Ma il punto non è tanto il rischio, quanto il prendere in considerazione ogni molteplice opzione, per allargare il campo. Per questo il curatore ha costruito il labirinto del Padiglione.
“Mi piacerebbe che il visitatore perdesse il senso del tempo – ha spiegato Farronato ad askanews – e il tempo diventasse dilatato, che ci possano essere più punti di vista e più prospettive, per vedere magari anche le stesse opere”. E dentro questo spazio, che è tanto fisico quanto semantico, le opere continuano a cercare una propria collocazione, che verrà necessariamente definita solo da ciascun visitatore, ogni volta a modo proprio. Ma su cui gli artisti hanno comunque lavorato.
“La collocazione – ci ha spiegato Liliana Moro – è arrivata in maniera naturale, perché il mio lavoro è un lavoro molto aperto, che non ha mai un unico punto di vista e ha sempre molti piani di lettura. Io definisco questo labirinto una visione, siamo partiti dalla visione di Milovan per poi arrivare a inserire le nostre opere, parlo al plurale perché trovo che tutte le opere siano molte riuscite in questo”.
Con Enrico David abbiamo invece provato ad analizzare il modo in cui il labirinto interagisce con le sue sculture. “La dimensione del labirinto – ci ha risposto – è proprio quella di non essere sicuri in un certo senso, quindi lasciare delle posizioni aperte rispetto a quello che trovi dietro l’angolo, sia per i lavori, sia per noi stessi, quindi è una forma di esercizio del tenere insieme delle cose, del creare anche un’armonia tra cose che non conosci, quindi l’incontro tra i lavori è anche un sinonimo dell’incontro tra noi”.
L’armonia tra le diversità, che comprendono anche il lavoro di Chiara Fumai, scomparsa nel 2017 a 39 anni, è un altro dei punti in cui l’esposizione di Farronato prova a congiungersi, con la consapevolezza intellettuale che il tendere spesso vale quanto, se non più, dell’arrivare. Interessante poi è anche il modo in cui l’allestimento labirintico ha modificato profondamente la percezione dello spazio del Padiglione Italia, anch’essa esposta a molteplici interpretazioni, alla fine tutte valide nello stesso modo.
“Fin dall’inizio volevo togliere la dualità, la separazione delle due tese delle Vergini – ha concluso Milovan Farronato – quindi ho immaginato di fare entrare non direttamente nel labirinto, ma nel Padiglione Italia, e lì una parete con più ingressi, alla fine sono stati due, sia da una parte sia dall’altra, invitava lo spettatore a fare una scelta: se andare a destra o a sinistra”. Se è vero che vivere è un susseguirsi di scelte molto spesso dalle conseguenze imprevedibili, qui allora possiamo dire di essere dentro una metafora funzionale. Ma anche dentro una delle possibili letture sullo stato dell’arte in Italia nel 2019, parziale, suscettibile di discussioni, ma comunque forte di un suo pensiero e di una sua complessa coerenza.