Per due mesi e mezzo le rampe di lancio nordcoreane sono rimaste vuote. Poi, all’improvviso, nella notte tra martedì e ieri, un nuovo proiettile è stato lanciato: un missile intercontinentale di nuova concezione, denominato Hwasong-15, che a detta non solo di Pyongyang è in grado di colpire ovunque negli Stati uniti. Perché questo risveglio? Andrei Lankov, uno dei principali osservatori di cose nordcoreane, ha provato du NK News a dare una spiegazione e prevede che Pyongyang non si fermerà finché non avrà la capacità reale di colpire gli Usa; solo allora si siederà al tavolo dei negoziati. Dopo un’estate calda, nella quale Pyongyang ha effettuato il suo sesto test nucleare e diversi test missilistici, per due mesi e mezzo c’è stata un’apparente calma. Non che siano calati i toni, ma c’è stato una specie di fermo degli esperimenti. Proprio in concomitanza con appuntamenti importanti nella regione: le elezioni politiche in Giappone, il Congresso del Partito comunista cinese, la lunga visita del presidente Usa Donald Trump che ha avuto proprio la Nordcorea come principale argomento in agenda. Diversi osservatori hanno ipotizzato che dietro a questo stop ci fosse la pressione cinese. Pechino, alleato regionale di Pyongyang ma sempre più in freddo con il regime di Kim Jong Un, ha anche inviato un suo emissario a Pyongyang formalmente per riferire gli esiti del Congresso, ma più probabilmente per discutere la questione dei programmi nucleari e missilistico della Corea del Nord. A spingere di nuovo avanti Kim nella scelta di effettuare nuovi test sarebbe stata, secondo quest’approccio, la decisione di Trump di inserire di nuovo la Corea del Nord nella lista dei paesi sponsor del terrorismo, una blacklist dalla quale la Corea del Nord era stata depennata da George W. Bush nel tentativo di perseguire la via negoziale.
Lankov non la pensa così. “E’ difficile concordare con questa teoria. Senza dubbio, la decisione di reinserire la Corea del Nord tra i paesi sponsor del terrorismo è tipicamente nello stile di diplomazia di Trump, che spesso mostra il tatto e l’eleganza del toro in un negozio di porcellane”, scrive Lankov su NK News. “Ma ci sono – continua – buone ragioni per sospettare che un più saggio comportamento di Washington non avrebbe fatto una gran differenza”. Secondo lo studioso, la pervicacia di Pyongyang nel perseguire la via dell’armamento nucleare potrebbe essere stata rallentata solo da “alcune difficoltà tecniche e non da alcun calcolo politico”. E, d’altronde, “è noto che la frequenza dei lanci di missili in Corea del Nord tende a cadere alla fine di ogni anno”. I leader nordcoreani hanno un’idea fissa: ottenere la capacità di colpire gli Stati uniti, perché la considerano la migliore garanzia per la oro sopravvivenza. Le esperienze di Saddam Hussein e Muammar Gheddafi, due leader nemici dell’America che hanno rinunciato ad avere armi nucleari e sono finiti male, forniscono a Kim Jong Un un vivido precedente. Quindi, spiega Lankov, “non si fermeranno finché non raggiungeranno quell’obiettivo”. L’obiettivo di Pyongyang, sostanzialmente, è quello di ottenere la capacità di un “first strike”, nei confronti degli Stati uniti, prima di sedersi a un tavolo di trattativa, spiega Lankov. Sono convinti che questa capacità sia a portata di mano. Solo dopo, ipotizza lo studioso, “potranno cominciare a negoziare e ridurre seriamente ls pressione internazionale”. Questo vuol dire che, fino a quel momento, “né i voti del Consiglio di sicurezza Onu, né i tweet presidenziali o le dichiarazioni dure cambieranno le cose”. askanews