Stavolta è la Rai. Ma il terreno di scontro è sempre lo stesso, il Senato. La minoranza Pd vota con le opposizioni, e sopprime uno dei tre pilastri della riforma di viale Mazzini, ovvero l’intero articolo delega che delegava il governo a intervenire sul canone. La segreteria del Nazareno minimizza la portata dell’incidente, assicura che si interverrà alla Camera, ma il dato politico resta. E infatti parallelamente parte il fuoco di fila dei comunicati stampa: tutti ad accusare di slealtà i 18 senatori “ribelli”, tutti a rivendicare che la maggioranza andrà avanti comunque. E infatti anche a palazzo Chigi e tra la cerchia dei più fidati collaboratori del premier, la fotografia è la seguente: “Si conferma che c’è un partito nel partito, e non serviva il voto sulla Rai: bastava il comunicato di Speranza e Cuperlo che accusano il governo di non fare nulla per il Sud”. Insomma, “non c’è niente che il governo faccia che vada bene…”. E allora? Se il renziano Giachetti evoca come ormai di consuetudine il voto anticipato come reazione all’indisciplina della minoranza, la risposta dal Nazareno è diversa: “Andremo avanti, e ci riusciremo, come ci siamo riusciti finora”.
Ma in molti individuano una chiave di lettura precisa per quanto accaduto: l’accelerazione sul rinnovo del Cda Rai, con la legge Gasparri. Accelerazione decisa dall’ufficio di presidenza della Vigilanza Rai, grazie ai voti dei commissari di Forza Italia. Ovvero, è la lettura, il Patto del Nazareno è vivo e vegeto, almeno su viale Mazzini. Magari con un presidente gradito a Forza Italia, in attesa che la riforma Rai diventi legge e il direttore generale indicato dal Tesoro si ritrovi con i “superpoteri” che gli assegna proprio la riforma. Quadro che la minoranza Pd – è la lettura in trasnatlantico – vuole provare a sabotare. Intanto c’è da eleggere i sette consiglieri di nomina parlamentare: 4 sono sicuri per la maggioranza (probabilmente tre al Pd e uno ai centristi), uno per i grillini (i 5 membri bastano per eleggere un consigliere), uno per Fi (che anche dopo le defezioni dei verdiniani può contare su 6 voti).
Resta il settimo, su cui in Transatlantico già ci si dava battaglia: i leghisti tentano con Fratelli d’Italia di convincere i “cani sciolti” della Vigilanza a convergere su un unico candidato, ma analogo tentativo sui vari esponenti dei gruppi più piccoli lo conduce il Pd. Tanto che alle sei di sera, in una Camera deserta, si incontravano solo i Dem Peluffo e Anzaldi, l’azzurro Lainati, il leghista Caparini e il deputato di Fdi Rampelli. Tutti con liste e foglietti e i nomi di quelli da convincere: Rossi, Scavone, il verdiniano D’Alessandro. Resta però il quadro di una maggioranza sempre più in affanno, almeno a palazzo Madama. I verdiniani, per giorni accreditati come la stampella del governo proprio in caso di eventuali sgambetti della minoranza Pd, sono presenti solo in tre al momento del voto incriminato, e in due votano a favore dell’emendamento, insieme proprio alla minoranza Pd. Tanto che dal gruppo Pd di palazzo Madama insistono sulla necessità di ricucire in qualche modo con i dissidenti: “E’ l’unica strada possibile”. Intanto c’è da scavallare l’estate: una volta approvata la riforma Rai, arrivano due decreti da convertire, poi finalmente la pausa. Poi si capirà cosa succederà ai provvedimenti più complicati: riforme in primis, poi unioni civili. E se il Patto del Nazareno è davvero risorto.