Non ha chiesto scusa, come annunciato. Non ha detto parole eclatanti, come previsto. Ma ci sono gesti che contano più delle parole, che fanno la storia. La visita di Barack Obama a Hiroshima, l’abbraccio a uno dei sopravvissuti del bombardamento atomico americano del 6 agosto 1945, Shigeaki Mori, vanno annoverati tra questi gesti. La visita di Obama al Parco della Pace di Hiroshima è durata meno di tre quarti d’ora. Il leader Usa è arrivato in elicottero dalla vicina base dei Marines di Iwakuni, è salito su una delle auto del solito corteo superscortato, è sceso davanti al Museo del Parco della Pace, dove si è trattenuto per una decina di minuti. Poi, assieme al primo ministro giapponese Shinzo Abe, si è recato di fronte al Monumento alle vittime dell’atomica. Dopo aver leggermente inchinato la testa, ha deposto una corona di fiori bianchi e si spostato al palco per tenere un breve discorso. Nessun gesto storico, come il cancelliere tedesco Willy Brandt che nel 1970 s’inginocchiò ad Auschwitz. “Il mondo è stato cambiato per sempre qui”, ha detto il leader Usa ricordando quel giorno in cui il bombardiere Enola Gay sganciò l’ordigno atomico su Hiroshima. “Ma oggi – ha continuato – i bambini di questa città potranno affrontare la loro giornata in pace. Sono protetti e questa protezione va estesa a ogni bambino”.
Obama, inoltre, ha ribadito l’appello a costruire un mondo “senza armi nucleari”, un futuro “in cui Hiroshima e Nagasaki non siano conosciuti come luoghi di un attacco atomico ma di un risveglio morale”. Per questo, ha assicurato Obama, si è recato a Hiroshima. “Siamo qui per riflettere su questa terribile forza, per pregare per i defunti: centinaia di migliaia di giapponesi, e anche coreani, e anche decine di americani sono morti. Le loro anime ci parlano, ci chiedono di andare avanti, di chiederci chi siamo, chi potremo diventare”. Parlare del futuro è anche un ottimo modo per evitare il passato. La visita a Hiroshima era un passaggio molto delicato per Obama. Negli Stati uniti la gran parte dell’opinione pubblica resta convinta che la distruzione atomica di Hiroshima e, tre giorni dopo, di Nagasaki fosse un atto necessario per evitare ulteriori e più estesi spargimenti di sangue che sarebbero stati prodotti da un’invasione di terra di un Giappone sconfitto ma ancora non domo. Per questo motivo il presidente e la Casa bianca hanno tenuto a chiarire che, nella visita, non ci sarebbero state scuse. Semmai un impegno a procedere sulla via di un’eliminazione delle armi nucleari nel mondo e alla non proliferazione, che Obama aveva già annunciato nel 2009 nel suo celebre discorso di Praga e che gli è valso anche il premio Nobel per la pace. Un discorso, questo, al quale in Giappone sono molto sensibili non solo per Hiroshima e Nagasaki, ma anche perché la vicina Corea del Nord si sta sempre più caratterizzando come paese nucleare imprevedibile, mentre Cina e Russia rappresentano vicini dotati di impressionanti arsenali atomici.
D’altronde, le elezioni americane si avvicinano e le prime dichiarazioni del candidato Donald Trump, ormai certo di ottenere la nomination repubblicana, non sono affatto rassicuranti. Il miliardario, nelle scorse settimane, ha sciorinato una politica per l’Asia che prevede la possibilità che gli alleati nella regione – Corea del Sud e, appunto, Giappone – debbano provvedere da soli alla propria sicurezza, anche dotandosi di arsenali nucleari. Seoul in passato ha avuto un programma di armamento segreto e Tokyo avrebbe teoricamente competenze e mezzi per procedere su quella strada. Al di là delle prudenze diplomatiche, dello stesso simbolismo del primo presidente americano in carica che ha fatto quella visita che nessun suo predecessore – Richard Nixon ci andò prima di risiedere alla Casa bianca, Jimmy Carter dopo aver traslocato – aveva avuto l’ardire di fare, è stato dopo il discorso che la portata storica dell’evento si è meglio definita. Obama si è avvicinato all’uditorio e, ha stretto la mano a Sunao Tsuboi, prima, per poi abbracciare il commosso Shigeaki Mori, un altro dei sopravvissuti. Tsuboi fu investito dall’esplosione atomica quando aveva 20 anni e negli ultimi anni è diventato il principale degli attivisti “hibakusha”. Mori aveva otto anni quando fu irradiato dalla bomba atomica e ha dedicato il suo impegno a cercare riconoscimento ufficiale come vittime per alcuni prigionieri di guerra statunitensi che, quando fu lanciata la bomba, si trovavano a 400 metri dall’epicentro dell’esplosione.
Gli “hibakusha”, con la loro associazione Nihon Hidankyo (Confederazione delle associazioni dei sopravvissuti giapponesi alle bombe A e H), da sempre cercano di mantenere viva la memoria della straziante esperienza delle vittime dei due bombardamenti atomici: gli oltre 200mila morti, le ferite atroci nel corpo e nell’anima dei sopravvissuti, le discriminazioni subite nei decenni seguenti. Da sempre invitano i presidenti americani e Obama è il primo ad aver loro risposto. In diversi sondaggi di questi ultimi giorni, tra gli “hibakusha”, è emerso che otto su dieci non chiedevano al presidente delle scuse formali, ma l’impegno a non utilizzare più queste terribili armi e a operare per il loro smantellamento. Obama ha preso l’impegno a lavorare in questo senso, anche ammettendo che probabilmente non ci si “risucirà in una vita”. Il leader Usa ha ricordato che, proprio a Hiroshima, il genere umano ha capito di avere la potenzialità “distruggersi”. Di poter usare la scienza – come quella che nel Progetto Manhattan che costruì l’atomica fu messa al servizio dell’impegno bellico americano – per produrre armi crudeli. “Il progresso tecnologico senza un progresso delle istituzioni umani ci può essere fatale”, ha notato Obama. “La rivoluzione scientifica che ci ha condotti alla fissione dell’atomo – ha proseguito – richiede anche una rivoluzione morale”.