Politica

Obama sfida Trump sul Messico e fa pressioni sulla Turchia

di Enzo Marino

In una giornata sola, Barack Obama ha inviato due messaggi. Uno, indiretto, al candidato repubblicano Donald Trump; l’altro, diretto, al leader turco Recep Tayyip Erdogan. Dal primo ha preso le distanze sottolineando la “partnership duratura” con il Messico nel giorno in cui ha accolto alla Casa Bianca (forse per l’ultima volta durante il suo mandato) il presidente messicano Enrique Pena Nieto. Al secondo ha confermato il pieno sostegno per il governo “eletto democraticamente” ma ha chiaramente detto che Ankara dovrebbe difendere le libertà civili e i processi democratici mentre indaga su chi abbia tentato esattamente una settimana prima un colpo di stato, poi fallito. Obama non lo ha nominato ma Trump è stato il suo target. A  quarant’otto ore dal discorso pronunciato dal miliardario nella quarta e ultima serata della convention repubblicana, il presidente ha criticato l’immagine cupa dell’America da lui tracciata. Non accetta che venga detto che le politiche della sua amministrazione abbiano portato a “violenza, caos e collasso” del Paese: una simile tesi “non ha fondamenta”. Obama riconosce che “ovviamente ci possono essere visioni diverse sulla direzione per il nostro Paese” ma non tollera “una visione di violenza e caos” che per altro non riflette “l’esperienza di molte persone”. E dicendo di non avere guardato la convention del Gop – “ho cose molto importanti da fare” – su cui si è informato leggendo i giornali, il Commander in chief ha negato le asserzioni secondo cui la violenza e il problema dell’immigrazione sono peggiorati da quando lui è entrato alla Casa Bianca nel gennaio del 2009.

Gli Usa, ha detto, “sono molto meno violenti di 20 o 30 anni fa” e “il problema dell’immigrazione è minore non solo rispetto a 20-30 anni fa ma anche da quando sono diventato presidente. Quel problema va comunque risolto”. Secondo il 44esimo presidente Usa, la visione del Gop sull’immigrazione illegale “non è corretta”. E così Obama ha lodato i risultati raggiunti su più fronti con il Messico, un “amico, un vicino, un membro della famiglia”. Complimenti, questi, ricambiati da Pena Nieto, che lo considera “un buon vicino”. I due leader hanno brindato alla “partnership duratura” tra le due nazioni, un legame che negli anni – ha aggiunto Obama – si è rafforzata. E in un altro attacco indiretto a Trump ha detto che “nonostante una retorica eccessiva, gli Usa danno valore alla partnership” con la nazione dell’America centrale. Niente muri dunque lungo il confine tra le due nazioni – come predica Trump – e nemmeno “intorno alla globalizzazione”, che è “un dato di fatto per via della tecnologia, dei cambiamenti nei trasporti, dei processi di produzione e distribuzione”. Obama dunque rifiuta di accettare anche una retorica contro gli scambi di libero scambio a lui tanto cari e contro cui il candidato del Gop si è schierato. Per il leader americano “la strategia migliore sta nel guardare al futuro trovando nuove direzioni e non guardare al passato distruggendo quanto fatto”. Anche perché le “guerre commerciali e le barriere complicano le attività delle aziende”. Certo, ha aggiunto Obama, “c’è il richiso che la globalizzazione aumenti le disuguaglianze ma è su questo che ci dobbiamo concentrare affinché con essa aumentino le opportunità per tutti e allo stesso tempo si risponda alle sfide climatiche ed ambientali”.

Sul fronte della Turchia, Obama ha ribadito che gli Stati Uniti sono un “amico e un partner” della Turchia. Ma Washington chiede che successivamente al tentativo di colpo di stato di venerdì scorso nel Paese anatolico, Ankara “garantisca la democrazia e il respetto delle libertà per cui il popolo turco ha fallito”. Secondo lui l’opposizione e i giornalisti dovrebbero sentirsi liberi di “fare sentire le loro preoccupazioni”. La Casa Bianca torna così a chiedere che le indagini per capire chi c’è dietro al golpe siano condotte “in linea allo stato di diritto e al rispetto delle libertà” pur comprendendo che la Turchia sia “scossa” da quanto successo. L’amministrazione Obama è tornata anche a lanciare un messaggio chiaro rivolto a tutto il governo di Erdogan: voci di un coinvolgimento degli Stati Uniti nel tantativo di colpo di stato “sono false” così come lo sono i report secondo cui Washington sapeva quanto stava per succedere in Turchia. Ad Ankara “lo devono capire perché a rischio è un’alleanza cruciale tra Usa e Turchia”. Quanto alla decisione sull’estredazione dell’imam turco Fethullah Gulen, chiesta agli Usa dalla Turchia, “non sta al presidente”, ha spiegato Obama. Il presidente ha aggiunto di avere detto ad Erdogan – che ha accusato Gulen di avere orchestrato il golpe fallito di venerdì scorso – “di presentare agli Stati Uniti le prove del coinvolgimento” dell’imam un tempo stretto alleato del leader turco e ora il suo nemico numero uno; il 77enne vive in un auto-esilio in Pennsylvania dal 1999. Gulen ha negato ogni coinvolgimento nel colpo di stato e anzi ha rigirato l’accusa al Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) di Erdogan.

 

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