“Non sopportavo la sua felicita’, era troppo felice, volevo ammazzare un ragazzo come me, togliergli tutte le promesse, toglierlo ai suoi figli, ai suoi parenti e ai suoi amici”. Sono le parole pronunciate ai carabinieri da Said Machaouat, il ragazzo di 27 anni che ieri si e’ costituito confessando di avere ucciso Stefano Leo, il 33enne accoltellato alla gola lo scorso 23 febbraio ai Murazzi di Torino. Il giovane marocchino, in Italia da quando aveva sei anni, ha deciso di raccontare tutto e lo ha fatto con una lucidita’ disarmante. Parole che, come ha detto il procuratore vicario di Torino Paolo Borgna “sono quelle che mai avremmo voluto ascoltare, che solo a sentirle scatenano un brivido lungo la schiena”.
La resa e’ arrivata domenica pomeriggio, poche ore dopo la marcia organizzata dai parenti e dagli amici di Stefano sul luogo del delitto. Una fatalita’ – secondo gli inquirenti – perche’ pare che l’assassino di quell’evento non ne sapesse nulla. In effetti dal 2015, quando la moglie italiana da cui ha avuto un figlio lo ha lasciato, la vita di Said e’ scivolata sempre piu’ in basso. Dopo aver perso il lavoro da cameriere, ha trascorso un periodo a Ibiza, quindi e’ tornato in Marocco per poi rientrare a Torino. Senza un impiego e senza casa, si e’ procurato i pasti nei centri d’assistenza sparsi per la citta’, trovando rifugio al dormitorio di piazza d’Armi. Nella stessa piazza, in una cassetta di derivazione elettrica, ha nascosto il coltello con cui ha tolto la vita a Stefano, scelto a caso per quell’aria felice che si portava dietro.
“Volevo uccidere un ragazzo, una persona la cui morte avesse una buona risonanza, non un quarantenne di cui poi non avrebbe parlato nessuno – ha raccontato ai carabinieri. – Quella mattina ho comprato i coltelli in un supermercato, erano colorati e con il simbolo della Svizzera. Sono costati circa 10 euro. Me ne sono subito liberato tenendone soltanto uno, il migliore per quello che avevo deciso di fare”. Da via Borgaro, dove si trova il supermercato, Said ha raggiunto piazza Vittorio Veneto e quindi la passeggiata sul lungo Po, dove poco dopo ha ucciso Stefano con una coltellata improvvisa alla gola. La vittima, con la mano stretta alla gola, e’ riuscita a salire qualche gradino prima di accasciarsi per sempre al centro della strada.
“Ho aspettato che passasse quello giusto – ha aggiunto Said – anche se in realta’ non so neppure chi stessi davvero aspettando. L’ho preso alle spalle, impugnando il coltello con la mano sinistra. Poi mi sono girato e ho visto che faticava a respirare. Siamo saliti insieme percorrendo i gradini che portano in strada, lui si e’ accasciato mentre io sono andato via camminando velocemente”. Da quel giorno Said ha continuato a sopravvivere. Ha pensato di suicidarsi, di uccidere qualcun altro, quindi di costituirsi. “Dopo aver nascosto il coltello – dicono i carabinieri – ha detto che forse l’avrebbe di nuovo utilizzato. La paura di potere uccidere ancora l’ha portato a costituirsi. Quest’uomo non aveva neppure i soldi per mangiare. Non utilizzava un telefono da circa due anni”.
“Il fatto che si sia costituito e’ stato un colpo di fortuna – ha spiegato il procuratore Paolo Borgna – ma sullo sfondo ci sono indagini condotte da investigatori tenaci, che hanno smontato giorni fa una prima confessione di un mitomane. Il movente e’ sconvolgente e banale”. Dopo essere stato dichiarato in stato di fermo, l’assassino si e’ rivolto all’avvocato Basilio Foti. “Non escludo che possa essere un mitomane – spiega il legale – a me ha detto che e’ stato lui, ma bastera’ esaminare le tracce di dna sul coltello per capire se dice o meno la verita’. Conservo delle perplessita’ perche’ ci sono alcuni aspetti che non mi convincono. E’ un ragazzo composto, educato, parla un perfetto italiano. Di certo sta vivendo un momento negativo, come quando una coppia si lascia e il padre non puo’ vedere il figlio. Ad ogni modo, se ha davvero ucciso quel ragazzo solo perche’ era felice, ha fatto una cosa mostruosa”.
LA RABBIA DELLA FAMIGLIA
Cinque settimane di silenzio assordante ed ora una verita’ che lascia l’amaro in bocca. “Il pensiero che Stefano sia morto per uno sguardo, forse per un sorriso che aveva regalato al suo assassino, e’ inaccettabile”, dice Maurizio Leo, il padre del 34enne ucciso in riva al Po, a Torino, da Said Machaouat perche’ non sopportava di vederlo felice. “Siamo a pezzi – aggiunge l’uomo, la voce rotta dall’emozione – non abbiamo piu’ parole. Lo hanno ucciso un’altra volta”. Chi voleva bene alla vittima, una persona descritta da tutti come mite e tranquilla, non sa darsi pace. “E’ un incubo che non ha fine. Come possiamo farcene una ragione?”, si chiede il padre della vittima. “Adesso che sappiamo la verita’ – insiste – come possiamo anche solo tentare di giustificare quello che e’ accaduto? Mio figlio e quell’uomo non si erano mai visti ne’ conosciuti. Erano due estranei, tra loro non e’ capitato nulla, sono uno sguardo e un sorriso, probabilmente casuali, perche’ Stefano era un giovane solare, che amava la vita. E’ inspiegabile che sia stato ucciso per questo motivo”. Le parole dell’uomo filano via una dopo l’altra, senza interruzione, quasi a voler riempire con il suono della sua voce il vuoto dell’angoscia per quel figlio che non c’e’ piu’.
“La solidarieta’ dei suoi amici e dei colleghi di lavoro e’ stata grande. ci sono stati vicini e hanno cercato di farci coraggio in questi giorni difficili”, aggiunge ricordando la passeggiata e i palloncini rossi lanciati in cielo per chiedere “giustizia e verita’” poche ore prima che Said confessasse il delitto. “Adesso e’ come se avessero ucciso Stefano un’altra volta ed io non riesco proprio a farmene una ragione”, sottolinea con un tono di voce che all’emozione abbina ora anche la rabbia. A Biella, dove Stefano Leo era nato e dove la famiglia vive, la notizia della confessione dell’assassino ha lasciato attoniti i numerosi amici della vittima e della madre, Maria Grazia Chiri. In tanti avevano partecipato ai suoi funerali laici, con un breve rito buddista, nel chiostro di San Sebastiano, il grande cortile del palazzo rinascimentale scelto dai famigliari per la sua appartenenza a una comunita’ Krishna, in Australia, dove aveva vissuto fino a poco tempo fa. Si dicono “sconvolti” anche gli ex compagni di scuola, con i quali il 34enne ucciso aveva condiviso gli studi fino alle Superiori. “Morire cosi’, uccisi in quel modo senza un motivo – dicono – non ha senso”.