Politica

Pace o guerra? Xi Jinping di fronte a un dilemma e a una triplice sfida

Si avvicina il XX Congresso del Partito comunista cinese, che consacrerà il terzo mandato di Xi Jinping come leader del paese. E, in vista di questo appuntamento quinquennale, Pechino dà segnali d’irrequietezza e difficoltà nel tornare ad assumere il centro nelle dinamiche della politica globale, che dall’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio s’è messa l’elmetto, andando in un territorio che ha un po’ oscurato l’irresistibile ma pacifica ascesa cinese. I rapporti con il partner russo, con l’avversario americano e la questione spinosa della riunificazione con Taiwan rappresentano i bordi di un terreno di gioco in cui Xi si muove per riconquistare rilevanza. Oggi il leader cinese ha mandato un messaggio alle forze armate, stimolandole a procedere con la riforma e ordinando un rafforzamento della capacità di combattimento. Evidentemente le defaillance mostrate dalla Russia in un’Ucraina armata dagli Usa e dall’Europa devono aver fatto suonare un campanello d’allarme anche a Pechino.

Xi, oltre a essere segretario generale del Partito comunista cinese e presidente della Repubblica popolare cinese, è anche il presidente della Commissione militare centrale, la più alta istituzione di direzione militare dell’Esercito di liberazione del popolo cinese. Dal XVIII Congresso – quello che sancì l’ascesa al potere di Xi – il leader ha spinto per un ammodernamento di procedure, organizzazione e pratiche delle forze armate. Ora però vuole vedere i risultati. ‘Ostruzioni sistemiche di lungo periodo, incongruità e questioni di politica nello sviluppo della difesa nazionale e delle forze armate sono state risolte, mentre sono state realizzate conquiste storiche nell’approfondire la riforma della difesa nazionale e delle forze armate’, ha detto il numero uno. Ora sono necessarie ‘una seria sommarizzazione e un’applicazione dell’esperienza di successo nelle passate riforme, inserendole nella nuova situazione, con un occhio alle nuove missioni e un focus sulla prontezza al combattimento’.

TAIWAN, LA SPINA NEL FIANCO

Prontezza a combattere per cosa e contro chi? La risposta è semplice: Taiwan e, indirettamente, contro gli Stati uniti. Non è chiaro se la Cina intenda davvero invadere la ‘provincia ribelle’, ma certo i segnali di un inasprimento sono evidenti. E a suggerire che le cose in Asia orientale si stanno deteriorando rapidamente, c’è anche la retorica del presidente Usa Joe Biden, il quale ha detto nei giorni scorsi che Washington è pronta a difendere Taipei direttamente. Un’affermazione che ha irritato Pechino e che viene dopo l’inedita visita della presidente della Camera dei rappresentanti Usa Nancy Pelosi a Taiwan e in pieno dibattito sullo stanziamento di 6,5 miliardi di dollari per armi da destinare all’isola. Il ministro degli Esteri taiwanese, in un’intervista pubblicata oggi da Nikkei Asia, ha paventato il rischio che un rallentamento della crescita economica possa spingere Xi ad attaccare Taiwan in modo da deflettere le critiche dell’opinione pubblica, fornendo a essa un nemico contro il quale concentrare la propria delusione.

Se leggere i documenti di avvicinamento al congresso, certo, la spinta sul tema della ‘riunificazione’ è piuttosto forte. Il Consiglio di Stato – cioè l’esecutivo cinese – e l’Ufficio affari di Taiwan all’interno dello stesso consiglio hanno emesso ad agosto un ‘libro bianco’ nel quale si afferma che ‘la completa riunificazione è un processo che non può essere fermato’ e che ‘le forze esterne che ostruiscono la completa riunificazione (leggi: gli Usa, ndr.) saranno certamente sconfitte’. Il documento ovviamente non esclude una ‘riunificazione pacifica’ che porterebbe a ‘prospettive luminose’, ma di certo il sottolineare l’ineluttabilità storica del ritorno in Cina di Taiwan vincola Xi Jinping a fare di tutto per raggiungere questo risultato. Alla base di questo stress su Taiwan non ci sono solo questioni storiche, ma anche strategiche.

La Cina – che è un paese ben lontano dall’autosufficienza per quanto riguarda le risorse energetiche e le altre materie prime – è ostruita nella sua proiezione verso il mare aperto, l’Oceano Pacifico, dalla strategia del ‘lago americano’ emersa dopo la seconda guerra mondiale, che vede il gigante asiatico avere come dirimpettai capisaldi della difesa avanzata americana: la Corea del Sud e il Giappone al nord; Okinawa, Taiwan, le Filippine e ora il Vietnam al sud. Questa catena di ferro è in grado non solo di contenere la proiezione militare marittima di Pechino, ma anche eventualmente di creare difficoltà nell’approvvigionamento di materie prime e parti per l’affamato apparato industriale cinese. D’altronde un paese come Taiwan – primo produttore globale di chip, con la Corea del Sud come secondo – è al cuore della primazia tecnologica americana e occidentale, che ancora oggi è un forte pilastro che sostiene l’egemonia americana nella regione e in termini globali.

GLI STATI UNITI, OSTACOLO ALL’ASCESA CINESE

In questo senso, se un risultato ha ottenuto Donald Trump nel suo mandato presidenziale è quello di aver messo in campo una strategia anti-cinese piuttosto aggressiva incentrata su dazi, sanzioni e restrizioni nelle collaborazioni accademiche sino-americane. Quando Joe Biden ha vinto le presidenziali, a Pechino hanno forse sperato in un cambio di rotta: si sono sbagliati. L’amministrazione democratica ha continuato sulla stessa linea, agitando il panno rosso davanti al toro cinese non solo con le dichiarazioni di Biden, talvolta corrette dal Dipartimento di Stato, ma anche con una collaborazione sempre più intensa con Taiwan e con le altre realtà alleate o semplicemente preoccupate dell’ascesa cinese sul piano militare ed economico, secondo la dottrina ‘Free and Open Indo-Pacific’.

Questo ha spinto Pechino a investire sempre di più, da un lato, sull’Iniziativa Belt and Road – il grande progetto di riapertura delle antiche Vie della Seta attraverso un sistema di logistica e connettività euroasiatiche – e dall’altro a provare di creare crepe nel muro creato dagli americani, per esempio titillando gli interessi degli stati insulari del Pacifico, corteggiati in estato con un lungo viaggio dal ministro degli Esteri Wang Yi dai risultati apparentemente non del tutto apprezzabili.

CON LA RUSSIA UN’AMICIZIA NON PROPRIO ‘SENZA LIMITI’

A complicare il quadro, poi, ci si è messa la Russia, che rappresenta per Xi un’opportunità e un problema. Vladimir Putin era stato l’unico leader di peso a recarsi a Pechino per l’inaugurazione delle Olimpiadi invernali e, in quell’occasione, c’era stata un’affermazione di amicizia ‘senza limiti’. Ma da allora il tempo è passato e la Russia ha pensato bene d’invadere l’Ucraina destabilizzando una regione del mondo che Pechino considera importante, tanto da aver fatto robusti investimenti soprattutto sull’agricoltura di Kiev. E nel primo incontro con l’inquilino del Cremlino dopo l’invasione, la settimana scorsa in Uzbekistan, Xi ha espresso – per ammissione dello stesso Putin – ‘preoccupazioni’ per la vicenda ucraina.

Pechino, ovviamente, in sede Onu si è ben guardata dall’unirsi alla risoluzione di condanna dell’invasione, ma nello stesso tempo ha continuato a chiedere un cessate-il-fuoco e una via diplomatica per la pace. Pur non impegnandosi, apparentemente, in un dossier che non appare destinato ad avere al momento esito positivo e pur rappresentando per la Russia un modo per alleviare le sue perdite sulle entrate per le vendite di idrocarburi, ci sono evidenti segnali di fastidio da parte di Pechino per l’avventura russa. Non è senza significato, per esempio, la decisione di Xi di anticipare l’andata a Samarcanda per il vertice Sco, dove ci sarebbe stato l’atteso summit con Putin, con una visita in Kazakistan: paese che non solo non s’è allineato sull’Ucraina al tradizionale alleato-protettore russo, ma che ha anche deciso di aderire a un regime di sanzioni contro Mosca.

Ci sono due elementi che Pechino non può apprezzare nell’azione di Putin. Il primo è la decisione di invadere un paese sovrano per favorire elementi secessionisti: gli immimenti referendum nel Donbass non possono essere riconosciuti a Pechino, che paventa la possibilità di passi indipendentisti a Taiwan. Il secondo è proprio la destabilizzazione di un punto chiave dell’Eurasia, che ha parzialmente compattato l’Occidente e posto ostacoli alla strategia Belt and Road. Oltre ad aver provocato inflazione, problemi di approvvigionamento alimentare e in definitiva ulteriori ostacoli alla crescita economica, proprio nell’anno del congresso Pcc.

Insomma, la Cina oggi oscilla tra una necessità di stabilità internazionale per lasciare campo libero all’economia, la sfida americana che punta a mantenere la sua egemonia e un rapporto controverso e irrisolto con il vicino russo. Una sciarada internazionale che spinge da un lato Pechino a consolidare la sua potenza militare, dall’altro a cercare di perorare la causa della stabilità e della pacificazione. Probabilmente Xi si troverà a dover scegliere tra l’una e l’altra se vuole che la Cina consolidi le sue prospettive egemoniche. E Taiwan potrebbe essere il campo in cui si testerà questa scelta. askanews

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