Perché la sorveglianza di massa non serve contro il terrorismo

La sorveglianza di massa non è la risposta per combattere il terrorismo. Questa l’opinione del “New York Times”, espressa in un editoriale, dopo le prime critiche alla protezione della privacy pronunciate negli Stati Uniti in seguito agli attacchi di Parigi, che hanno riaperto il tema del rapporto tra sicurezza e protezione delle comunicazioni. In particolare, il quotidiano di New York ha attaccato John Brennan, il direttore della Cia, che rientra tra quelli che “non perdono tempo e sfruttano a fini personali la tragedia”. Brennan si è lamentato delle “eccessive preoccupazioni sul ruolo del governo, nello sforzo di cercare di scoprire questi terroristi”. Brennan definisce “preoccupazione” eccessiva l’indignazione sorta nel Paese dopo le rivelazioni di Edward Snowden, un ex contractor della Nsa, un’agenzia d’intelligence statunitense, sulla raccolta indiscriminata e segreta di informazioni su milioni di telefonate di cittadini americani, sfruttando il Patriot Act, ha ricorda il New York Times. Poi, a giugno, il presidente Barack Obama ha firmato il Freedom Act, che ha messo fine alla raccolta massiccia dei dati delle telefonate nazionali da parte del governo e imposto al Fisc, il tribunale segreto per la sorveglianza sugli stranieri, di rendere disponibili al pubblico le sue sentenze piùsignificative.

“Queste riforme sono solo un miglioramento modesto al Patriot Act, ma la comunità d’intelligence le vede come un grave impedimento agli sforzi contro il terrorismo. Brennan – ha scritto ancora il Nyt – ha definito gli attacchi di Parigi un ‘campanello d’allarme’, affermando che le ‘recenti azioni politiche e legali hanno reso più ardua la nostra capacità di trovare questi terroristi'”. Ricordando – ha proseguito l’editoriale – le bugie pronunciate da lui e dal suo capo, James Clapper, direttore dell’intelligence statunitense, “è difficile credere a quello che dice Brennan”. Quello che è successo a Parigi, come ha detto un esperto dell’antiterrorismo francese, ha mostrato che “la nostra intelligence è abbastanza buona, ma la nostra capacità di agire è limitata dai grandi numeri”, visto che che la maggior parte degli attentatori era già conosciuta dalle intelligence di Francia e Belgio. “In altre parole, il problema in questo caso non è stato una mancanza di dati, ma l’incapacità di agire in base alle informazioni che le autorità avevano già”.

“La raccolta indiscriminata di dati – ha scritto il ‘New York Times’ – non è stata utile e l’intelligence non ha dimostrato di aver sventato un attacco terroristico grazie a quel programma”. “L’incapacità dell’intelligence di dire la verità sulle pratiche di sorveglianza è solo una parte del problema. Quello principale è la loro volontà di aggirare le leggi. Le rivelazioni di Snowden hanno messo a nudo quanto sia facile abusare dei poteri per la sicurezza nazionale, definiti vagamente e esercitati generalmente in segreto”. “L’intelligence è ancora nelle condizioni di fare quasi tutto quello che faceva prima, solo che ora – ha aggiunto il quotidiano – lo fa con un po’ più di supervisione dei tribunali e del pubblico”. L’intelligence deve avere i poteri necessari per sventare gli attacchi terroristici, naturalmente, ma questo non significa “accettare senza riserve tattiche inefficaci e molto probabilmente incostituzionali che riducono le libertà civili senza rendere il pubblico più sicuro” ha concluso il “New York Times”.

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