Pizzo a bar del Tribunale di Palermo: 2 assoluzioni in appello

Erano accusati d’aver chiesto il pizzo al titolare del bar-tabaccheria che si trova all’interno del Tribunale di Palermo, ma dopo la condanna in primo grado, oggi la sentenza d’appello li ha visti assolti. Si tratta di Francesco e Michele Lo Valvo, padre e figlio, ai quali lo scorso 31 marzo 2014 fu inflitta una condanna a 6 anni. In quella circostanza furono inflitti 10 anni a Benedetto Marciante, per il quale oggi invece i giudici hanno fatto cadere l’aggravante dell’articolo 7, l’aver favorito Cosa nostra, riducendo in questo modo la pena a 4 anni. Grande delusione per questa decisione è stata espressa dall’avvocato Stefano Giordano, legale del commerciante vittima della presunta estorsione. “E’ una sentenza sconfortante per chi ha creduto nella giustizia, e da essa è stato deluso – ha osservato Giordano -. La caduta dell’aggravante dell’articolo 7 rende questa sentenza ‘ictu oculi’ impugnabile per violazione di legge innanzi alla Corte di Cassazione, e soprattutto rende vano quasi completamente gli sforzi delle forze dell’ordine e dei magistrati inquirenti che avevano effettuato un lavoro molto analitico nei confronti degli imputati, e che oggi vedono frustrato il loro impegno per effetto di una sentenza ingiusta. Una volta depositate le motivazioni della sentenza le analizzeremo, e vedremo che margini ci sono per impugnarla in Cassazione”.

Quello della richiesta di pizzo al titolare del bar-tabaccheria del Tribunale palermitano fu un caso eclatante, scoperto dai carabinieri e dal pm Sergio Barbiera. Marciante, considerato legato al clan di Resuttana, fu arrestato mentre intascava la seconda rata del pizzo: 18 mila euro in contanti. Un video, tra l’altro, immortalò la consegna del denaro avvenuta in un capannone di via Cervantes. Francesco e Michele Lo Valvo, invece, sono parenti del commerciante, e avrebbero rivestito il ruolo di mediatori dell’estorsione, per fare ottenere uno sconto all’imprenditore. Inizialmente, infatti, Marciante avrebbe preteso direttamente la gestione del bar-tabaccheria, “riducendo” successivamente le sue pretese a 38mila euro prima, e 28mila poi, di cui 23 mila sborsati in due rate. Una ricostruzione che però i due imputati hanno sempre respinto.

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