I profughi Rohingya sono arrabbiati con papa Francesco perché, per il suo viaggio in Bangladesh, dopo la visita in Myanmar e gli incontri con il presidente Htin Kiaw e con il premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, non ha previsto una tappa nel campo profughi di Kutupalong. Nella baraccopoli del Bangladesh sono accampati circa 30mila dei 660mila cittadini di etnia Rohingya, minoranza musulmana dello stato birmano di Rakhine, conosciuto anche come Arakan, perseguitati e costretti all’esilio in quella che l’Onu ha definito a tutti gli effetti un'”operazione di pulizia etnica”. “Sono deluso – dice questo ragazzo – se venisse qui potrebbe rendersi conto con i suoi occhi della situazione e potremmo anche parlargli di persona. Penso che dovrebbe venire”. “Se il Papa può aiutarci – aggiunge quest’uomo – allora vorrei dirgli che vogliamo tornare nel nostro Paese e rivogliamo i nostri diritti; l’Arakan è nostro e vogliamo tornarci”. Nel suo unico discorso ufficiale, in Myanmar, lo stesso papa non ha mai citato apertamente il dramma dei Rohyngya. Una questione spinosa per Aung San Suu Kyi che, a causa del suo “immobilismo”, si è vista revocare l’onorificenza “Freedom of Oxford” assegnatale dalla città britannica in cui la leader birmana è cresciuta e ha studiato. Una decisione definita “senza precedenti” dalla stessa comunità di Oxford. Nei giorni scorsi i governi di Bangladesh e Myanmar hanno annunciato di aver raggiunto un accordo per il rimpatrio dei profughi ma, nonostante questo, la fuga dei Rohingya è continuata. La repressione da parte dell’esercito del Myanmar, Paese a maggioranza buddista, è iniziata nell’agosto del 2017 dopo una serie di attacchi da parte d’indipendentisti Rohingya contro postazioni dei militari.