Così, nell’agosto 1902, il giovane Mussolini nel suo articolo intitolato “Una caduta” espresse sdegno per quanto stava avvenendo in Anatolia: “Vi è un popolo che cade” scriveva il futuro capo del fascismo. “Un intero popolo, generoso ed obliato, che ogni giorno lascia a brandelli la sua carne, la sua libertà, le sue tradizioni per una insanguinata strada di rovine. Il telegrafo quotidianamente annunzia i massacri consumati dai Kurdi sugli Armeni; nessuno sfugge al macello: ogni giorno un capokurdo, dopo aver incendiato un villaggio, ordinò si legassero tutte le donne, commise su di esse atti di ferocia inaudita e le fece morire fra orribili torture”. “Ebbene – denunciava Mussolini -: questi particolari che all’alba del XX secolo dovrebbero sollevare in tutte le anime sensi di raccapriccio, passano inosservati completamente o quasi, come episodi di secondaria importanza, nella farraginosa cronaca d’ogni dì. Pochi solitari alzano la voce per protestare in nome in nome del diritto delle genti”. Il giovane socialista deprecava in particolare la comunità internazionale e il mondo giornalistico che sembravano ignorare le sofferenze degli armeni mentre fremevano per un’altra “caduta”, quella del campanile di Venezia del 14 luglio 1902: “Per la torre che crolla impotente a sostenere il peso dei secoli – scriveva -, fin la diplomazia e gli alti consessi più o meno burocratici o finanziari si muovono: un coro di proteste e di voti s’innalzano nel nome dell’arte, delle memorie, della patria, fin dell’umanità; per il popolo – ancora bambino – che cade schiacciato dal moloch della barbarie ciecamente fanatica, nessuno s’agita. L’Europa che freme davanti ad una perdita dopo tutto anche artisticamente discutibile, non trova per questa causa uno slancio di generosità; non ha proteste contro chi potrebbe, volendo, impedire che una regione diventi un cimitero”.