Una serie di ritratti; la catalogazione di un universo personale, ma anche una tassonomia dei tipi umani; una riflessione sulla pittura come medium e, ovviamente, un grande, debordante self portrait. La mostra “David Hockney – 82 ritratti e una natura morta” presentata nella Galleria Internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro a Venezia può essere contemporaneamente tutte queste cose, oltre che una lezione straordinaria sui modi in cui si può dipingere una sedia, sempre la stessa sedia, sulla quale il pittore inglese ha fatto accomodare, per non più di tre giorni di posa, amici, conoscenti, persone con cui lavora. Insomma un contesto per certi versi quotidiano, anche se alcuni dei personaggi ritratti si chiamano Gagosian, come il gallerista Larry, oppure Baldessari, come John, il grande artista americano.
La mostra di Ca’ Pesaro, allestita con la stessa generosità coloristica di tutti i ritratti, è un’esperienza visiva che induce a pensare alla pittura più pura: lo sfondo bicromo di ogni dipinto ricorda le grandi campiture dell’astrattismo più consapevole; la presenza della stessa sedia in ogni lavoro rimanda agli oggetti trovati cari alla poetica surrealista, mentre la tavolozza di colori, talmente ricchi da sembrare quasi immaginari, è completamente Hockney, una specie di marchio di fabbrica del pittore di “A bigger splash”, qui ancora più consapevole dello strumento espressivo che impugna.
Il riferimento all’autoritratto è inevitabile, anche a costo di sembrare un po’ scontati, ma se sembra quasi naturale cercare le fattezze del pittore nel ritratto di Barry Humphries , attore e scrittore australiano vistosamente abbigliato, meno prevedibile è che si possa trovarla anche nella giovane Oona Zlamany con i capelli sciolti e un vestitino corto a righe orizzontali. Ma poi ci si avvicina e si vede, distintamente, che quello non è un vestito estivo, ma è pittura e la pittura è il vero ritratto di David Hockney, quindi, se vi piace crederlo, il cerchio si chiude in armonia, senza rinunciare a una dimensione estetica, ma mostrando piuttosto chiaramente la consapevolezza di tutto ciò che va oltre questa estetica.
Naturalmente, come accade per chiunque pensi alla pittura figurativa, i ritratti esposti a Venezia finiscono inevitabilmente per andare a sbattere contro Francis Bacon, ma l’incidente, per una volta, non lascia danni, anzi, la grandezza di Hockney si manifesta appieno nella consapevolezza e nel contestuale superamento della imprescindibile lezione di Bacon, il tutto fatto con leggerezza, ma senza perdere la serietà del lavoro. E così, quando a fine mostra ci si imbatte fisicamente nella sedia su cui ha posato ogni soggetto, è impossibile non sedercisi, ma più che per immaginare di essere, parafrasando Giulio Paolini, una persona che osserva David Hockney, lo si fa per sentirsi parte tangibile di un modo di stare nell’arte contemporanea che oggi il pittore britannico impersona probabilmente come pochissimi altri al mondo.