“Credo sia difficile non ammettere che The Clock è un capolavoro e un capolavoro è un’opera che sarà sempre e rimarrà sempre un classico”. Lo dice con semplicità Andrea Lissoni, senior curator alla Tate Modern di Londra, dove si sta chiudendo una lunga sessione di screening del celeberrimo film di 24 ore di Christian Marclay, un’opera che in dieci anni è divenuta un classico, nella quale, grazie al montaggio di diversi spezzoni di film, l’ora della narrazione corrisponde sempre a quella dello spettatore.
“Questo strano e fondamentale tentativo che i musei stanno cercando di realizzare, ossia dimostrare come lo spazio pubblico del museo sia unico, sia uno spazio ‘safe’ si dice in inglese, uno spazio in cui ci si sente cittadini – ha aggiunto Lissoni in un’intervista esclusiva con askanews – è veramente impersonato da The Clock perché in quello spazio, in quelle poltrone, tu sei confortevole nel guardare un’opera d’arte e ti senti al sicuro, ti senti libero, ti senti in una tua zona di tempo a fianco di altre persone che ne stanno godendo. Questa è una delle caratteristiche fondamentali del film: portare tutti a condividere, tempo più che spazio”.[irp]
Fuori una Londra grigia e piovosa come da stereotipo, dentro un ragionamento sul senso del Tempo e sulla sua narrazione, sulla realtà e l’irrealtà, sull’idea di arte e, a questo tengono molto alla Tate, di comunità. “E’ un pubblico diverso, diversificato, un pubblico che non ha necessariamente delle forti connotazioni anagrafiche, di provenienza, di rappresentazione d’identità e anche di classe sociale, che è la cosa più importante”. La si cerca sempre senza trovarla, forse questa volta però la definizione di cosa sia davvero l’arte contemporanea l’abbiamo in qualche modo raggiunta, dentro le parole di Andrea Lissoni, dopo esserci alzati ancora una volta dai divanetti di The Clock.