di Marco D’Auria
Vincere a Milano, e magari soltanto a Milano, può essere forse il “primo avviso di sfratto” a Renzi, come ha auspicato più volte Matteo Salvini, ma potrebbe anche mettere in discussione in casa Lega il nuovo modello di alleanza “lepenista” che lo stesso leader ha voluto sperimentare in altre città, a partire da Roma, e che vorrebbe replicare a livello nazionale. Anche perché, nel momento in cui la Lega appare più forte che mai in termini di consenso, rischia di non avere nessun sindaco leghista in una città importante. Mentre in questi mesi non ha perso occasione per attaccare Alfano e il Ncd, Salvini si è presentato come capolista per la Lega nella sua Milano, dove però sostiene un candidato moderato doc, Stefano Parisi, espressione di quella parte di coalizione che è l’opposto della sua visione politica e che rifiuta il linguaggio del populismo e dell’estremismo. Parisi stesso ha più volte preso le distanze da derive estremiste o xenofobe e ha chiesto, senza successo, il ritiro di un candidato di zona considerato neofascista nella lista della Lega. L’ex city manager di Letizia Moratti ha anche invitato i militanti di Forza Italia, nei giorni scorsi, a votare per Maria Stella Gelmini per “avere un grande successo moderato” a queste elezioni.
Posizioni ben distinte, quando non contrapposte su alcuni temi sensibili, come la moschea, che hanno portato molti osservatori ad interrogarsi sulla eventuale compatibilità di governo della città tra Lega e candidato sindaco. A Milano c’è la stessa coalizione di centrodestra ampio che ha vinto le ultime elezioni regionali lombarde e che l’ex leader Roberto Maroni ha sempre sostenuto. Due visioni diverse, quelle dei due successori di Umberto Bossi, che acquisteranno più o meno forza a seconda del risultato di Milano, ma anche di quello di Roma, dove Salvini ha scelto di sostenere Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, con una campagna più radicale incentrata sui temi della sicurezza e dell’immigrazione, sancendo la rottura con Silvio Berlusconi, che a Milano però sostiene Parisi. Se perde a Roma, un punto in più per la concezione “maroniana” delle alleanze. Viceversa, una vittoria a Roma e una sconfitta a Milano, se da una parte potrebbe essere letta come una conferma della scelta di alleanze “nette” e di una chiusura futura ai centristi, sarebbe uno smacco sul piano personale per Salvini, che nella sua Milano ha comunque fatto campagna elettorale e soprattutto si è presentato come capolista.
Non sarebbe comunque la prima volta che da una tornata amministrativa partisse nella Lega una riflessione sulla politica di alleanze, tema cruciale per un movimento che su scala nazionale non ha mai sfondato. Già nel 2013, la sconfitta in alcune roccaforti leghiste portò anche alla ridefinizione di priorità e obiettivi, che si concretizzò con la futura leadership di Salvini. La Lega sprofondò al 4,5 per cento a Vicenza e all’8,2 per cento a Treviso. Fu game over per lo slogan “Prima il nord” e l’inizio della riflessione su una nuova strategia di alleanze nel centrodestra a livello nazionale. Quel che è certo è che se non vince a Bologna, dove candida Lucia Borgonzoni, la Lega rischia di rimanere a bocca asciutta nella corsa alla guida dei capoluoghi che vanno al voto in questa tornata di amministrative. E il paradosso è di rimanere a mani vuote o andare al governo con sindaci che non hanno in tasca la tessera del movimento, che sia Parisi o Meloni. Anche a Varese, dove la Lega è nata e governa da 23 anni, il centrodestra se le gioca al fotofinish con il Pd e per la prima volta non ha un candidato leghista, ma Paolo Orrigoni, un tecnico chiamato in politica come Stefano Parisi.