Due mezzi vincitori: il premier socialista Pedro Sanchez e il Partido Popular; diversi sconfitti: l’estrema destra di Vox, l’indipendentismo catalano nel suo insieme e i sondaggisti; un involontario trionfatore: l’ex presidente della Generalitat in esilio, Carles Puigdemont, il cui partito Junts si ritrova ago della bilancia della governablità a Madrid.
I risultati definitivi del voto spagnolo sono ben diversi da quelli che promettevano i sondaggi: il Pp di Alberto Nuñez Feijoó ha sì ottenuto la maggioranza delle preferenze, ma ben lontano dai livelli previsti dagli istituti demoscopici. Anche contando Vox (terza forza ma in calo di consensi) e gli altri partiti minori, le destre si fermano a 171 seggi, cinque in meno della maggioranza assoluta che blinda il mandato a formare un nuovo governo. Feijoó ha comunque rivendicato la vittoria e in quanto candidato più votato chiede agli altri partiti (ovvero, ai socialisti) di astenersi per permettergli di formare un governo di minoranza. Ma si tratta di uno scenario che appare del tutto improbabile; l’unica arma che gli rimane è quella di tentare di delegittimare a priori un eventuale esecutivo a guida socialista.
Il premier uscente Sanchez da parte sua ha ottenuto in buona parte il risultato voluto con l’anticipo delle elezioni: una mobilitazione della sinistra che grazie al voto utile gli ha permesso di limitare i danni (anzi, di migliorare leggermente i risultati del 2019, come ha fatto notare lo stesso premier nel suo discorso postelettorale), senza tuttavia raggiungere l’obbiettivo prefissato di poter riciclare senza problemi l’attuale maggioranza di governo. La sinistra e i suoi alleati, in tutte le sue declinazioni, arriva infatti a 172 seggi e Sanchez si è ben guardato dal fare previsioni su un futuro governo. Fuori dai due blocchi principali rimangono infatti i sette seggi di Junts (Uniti per la Catalogna: dal suo appoggio (diretto, o più probabilmente tramite un’astensione al secondo voto di investitura) dipende la riedizione della maggioranza attuale o un ritorno alle urne dal risultato ancor più incerto.
Si tratta di un paradosso perché la vittima principale del voto utile (e dell’astensione) è stato proprio l’indipendentismo catalano nel suo insieme. In particolare la sinistra di Erc che ha perso ben sei seggi a favore dei socialisti del Psc; di fatto, a salvare Sanchez in termini numerici è stata proprio la Catalogna. La questione principale quindi torna ad essere quella catalana: Sanchez fino ad ora l’ha sopita, ma non certo risolta; e questa volta, il prezzo politico da pagare per rimanere alla Moncloa potrebbe essere troppo alto da accettare. Per il premier infatti acconsentire ad un indulto personale per Puigdemont o addirittura a un futuro referendum di indipendenza sarebbe un suicidio politico. Ma basterebbe anche solo discutere l’idea per perdere voti a favore della destra, Vox o non Vox.
Non è chiaro d’altra parte quale altro risultato che vada al di là di qualche concessione economica la coalizione politica catalana guidata da Carles Puigdemont possa realisticamente ottenere da un negoziato, visto che negli ultimi anni i socialisti hanno promesso molto e mantenuto quasi niente. Nonostante in campagna elettorale Junts abbia quindi dipinto il voto nazionale come un problema della Spagna e non della Catalogna, il settore più pragmatico del partito (minoritario nella dirigenza, non necessariamente nella base), potrebbe comunque finire col considerare l’investitura di Sanchez come il male minore.
L’alternativa è infatti un’impasse che porterebbe di nuovo alle urne: Sanchez potrebbe in questo caso dare la colpa all’intransigenza dell’indipendentismo catalano, ma nulla gli garantisce che fra qualche mese l’elettorato progressista torni a votare con la stessa convinzione. La fase negoziale che inizia oggi quindi si preannuncia lunga e faticosa. In palio un voto di investitura che di fatto – data l’esistenza della sfiducia costruttiva – in caso di esito positivo garantirà al leader socialista altri quattro anni di governo, più o meno agitato. Se tutto sommato Sanchez può dirsi abbastanza saldo alla guida del suo partito – il risultato di ieri equivale a un mezzo miracolo – non si può dire altrettanto di Feijoó: se dovesse rimanere a mani vuote, è probabile che si produca un cambio della guardia per i popolari, con una serie di faide interne dalle quali potrebbe uscire vincitrice Isabel Díaz Ayuso, padrona del Pp di Madrid ma personaggio assai più divisivo in un Paese sempre più polarizzato.