Si chiama Sfingosina-1-fosfato ed è una piccola molecola lipidica che ha svariate funzioni nell’organismo, dove regola processi legati al sistema immunitario, alla funzione vascolare e cerebrale. Nei pazienti COVID, la presenza di Sfingosina-1-fosfato circolante – in piccole o grandi quantità – può fare da campanello d’allarme per capire, da subito, quanto grave sarà la malattia e decidere, quindi, le cure più opportune. Nel 2014 ne è stato dimostrato il ruolo nell’aggressività di alcuni tumori cerebrali, dove oltre a indurre resistenza ai chemioterapici, stimola la formazione di nuovi vasi sanguigni che alimentano il tumore, apportando nutrimento alle cellule cancerogene. Nel Covid, in cui i vasi vengono danneggiati dal processo infiammatorio innescato dall’infezione, funziona come biomarcatore in senso opposto. La scoperta è italiana, fatta da un team di ricercatori dell’Università di Milano, del Policlinico di Milano e dell’Aeronautica Militare, coordinato dalla biochimica Laura Riboni e dallo pneumologo Stefano Centanni dell’Università di Milano.
“Questo studio – ha spiegato ad askanews il prof. Centanni – ha dimostrato che bassi livelli di Sfingosina-1-fosfato sono associati a quadri più gravi della malattia, che richiedono cure ad alte intensità. Il dosaggio della molecola attraverso un prelievo ematico al momento della diagnosi di COVID-19 consente quindi di predire il rischio che si instauri un quadro grave di malattia nei giorni successivi alla diagnosi stessa e di predirne la mortalità. Ciò potrebbe consentire ai clinici di personalizzare gli sforzi terapeutici stratificando in pazienti in base alla predizione di rischio “. A guidare la squadra di esperti, di cui fanno parte tra gli altri Stefania Navone e Laura Guarnaccia, il capitano medico dell’Aeronautica Militare, Giovanni Marfia dell’Istituto di Medicina Aerospaziale di Milano-Linate e ricercatore del Policlinico
“Questa polmonite da Covid – ha spiegato il giovane ufficiale – ha delle manifestazioni totalmente diverse dalle polmoniti tipiche finora conosciute. Allora abbiamo pensato cha Sfingosina – fosfato potesse avere un ruolo, perché era evidente che la malattia era innescata dal virus che però faceva solo da miccia d’innesco, seguita da una reazione infiammatoria importante, mediata dal sistema immunitario, che in alcuni individui dava un quadro molto grave mentre in altri si risolveva o si autolimitava con pochi sintomi. Cosa abbiamo fatto? Abbiamo arruolato 111 pazienti affetti da Covid con diversa severità, stratificandoli in base al quadro clinico, alcuni asintomatici altri con pochi sintomi, altri richiedevano un ricovero a bassa intensità o la terapia intensiva e alcuni purtroppo sono deceduti. Abbiamo valutato tantissimi parametri tra cui la Sfingosina-1-fosfato e abbiamo visto che i pazienti che al momento della diagnosi di infezione da Covid avevano valori più bassi rispetto a quelli fisiologici avevano una probabilità molto più alta di sviluppare un quadro clinico severo, se non si fossero messe in atto contromisure adeguate”.
Ci sono contromisure attuabili attraverso gli attuali protocolli di terapia, altre oggetto tuttora al vaglio, ma il vero vantaggio è sapere con che tipo di paziente si ha a che fare. “La somministrazione di cortisone per esempio – ha precisato il professor Centanni – contribuisce a innalzare il livello degli Sfingolipidi”. “Le strategie sono diverse – ha concluso il capitano Marfia – alcune attuabili semplicemente individuando i pazienti a cui fare la miglior terapia in base al rischio personalizzato con le risorse già disponibili, poi stratificarli consente di accantonare le risorse sanitarie che in una pandemia sono comunque carenti, per gli individui giusti che veramente ne avranno necessità rispetto ad altri che avranno una forma più lieve che non richiede altra intensità di cura”. I risultati della ricerca sono stati pubblicati nei giorni scorsi sull’autorevole rivista scientifca EMBO Molecular Medicine.