Più che la solita decostruzione – che Dylan applica volentieri ai suoi stessi pezzi, spesso irriconoscibili dal vivo – si tratta di una rilettura che segue le orme degli ultimi album; d’altronde, dopo aver registrato un disco di canti natalizi, nel 2009, il passaggio a Sinatra suona retrospettivamente quasi obbligato. Dylan ha spiegato nelle interviste di avere in mente un disco di standard fin dalla fine degli anni Settanta, e quando si parla di American Songbook, “Sinatra è la montagna che tutti devono scalare, anche senza arrivare in cima”.
Sinatra da parte sua fu un acerrimo nemico del rock fin dalla sua nascita (prevedendo evidentemente che Elvis e compagnia lo avrebbero definitivamente pensionato a Las Vegas: forse non che lì lo avrebbe raggiunto non molti anni dopo lo stesso Elvis) pur facendo negli ultimi anni qualche concessione a ballate come la beatlesiana “Something” (attribuendola peraltro a Lennon-McCartney). Pur abitando universi musicali del tutto opposti peraltro i rapporti fra i due erano cordiali e Dylan fu diverse volte ospite nella villa di Sinatra a Beverly Hills – senza, probabilmente, nessuna jam session improvvisata che possa aggiungersi in futuro alla interminabile serie dei “bootleg” ufficiali dell’opus dylaniano.