Shinzo Abe, premier “predestinato” vuole riforma della Costituzione

Shinzo Abe, premier “predestinato” vuole riforma della Costituzione
Shinzō Abe, primo Ministro del Giappone
18 ottobre 2017

Shinzo Abe, che affronterà domenica cruciali elezioni per il rinnovo della Camera dei rappresentanti dalle quali dipende la sua permanenza al vertice del governo di Tokyo, proviene da una grande famiglia politica che ha espresso premier e ministri ed è un esponente conservatore con una visione pacifista del Giappone orientata a superare un vero e proprio dogma, che ha informato la politica nipponica in tutto il dopoguerra: la cosiddetta “dottrina Yoshida”. Shigeru Yoshida fu il primo capo del governo del Sol levante post-bellico e a lui si fa risalire l’approccio che vuole Tokyo concentrare le sue risorse sullo sviluppo economico, delegando di fatto la politica estera e di difesa agli Stati uniti. Questo caposaldo della politica giapponese ebbe da subito un grande avversario: Nobusuke Kishi. Era un leader molto controverso. Sospettato di crimini di guerra dal Comando supremo alleato, scontò tre anni in carcere, per poi essere sostanzialmente prescelto dagli Americani a guidare il paese in una direzione liberale e inquadrata nel sistema di alleanze Usa. Kishi, tuttavia, aveva un’ossessione: riformare l’articolo 9 della Costituzione dettata dagli Usa, che statuisce la rinuncia alla guerra e il divieto di detenere delle forze armate capaci di offendere, motivo per il quale il Giappone ha delle “Forze di autodifesa” con capacità d’azione limitata da diversi vincoli. La riforma della Costituzione pacifista è oggi nel mirino di un altro primo ministro, Shinzo Abe, il quale ha concrete possibilità di fare centro. E Shinzo Abe è il nipote di Nobusuke Kishi. L’attuale primo ministro è nato nel 1954 da Shintaro Abe, importante esponente politico più volte ministro e candidato a diventare primo ministro (senza riuscirvi), e dalla figlia di Kishi (il quale peraltro era anche fratello di Eisaku Sato, a sua volta a lungo primo ministro). Appartiene, insomma, in pieno all’aristocrazia politica giapponese, sostanzialmente un predestinato.

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Dopo gli studi, parzialmente realizzati in California, Abe ha lavorato per la Kobe Steel, per poi entrare in politica all’ombra del padre. La sua prima elezione alla Dieta risale al 1993, ma si è fatto le ossa nel governo all’interno degli esecutivi guidati da Yoshiro Mori e Junichiro Koizumi. In questa funzione, ha avuto un importante ruolo nella gestione della questione dei giapponesi rapiti dalla Corea del Nord negli anni ’70 e ’80, una vicenda ancora non risolta che è parte importante della sua azione politica e della sua stessa campagna elettorale. Nel settembre 2006 è primo ministro, dopo aver vinto le elezioni. Questa esperienza però è sfortunata: solo un anno dopo è costretto alle dimissioni dopo una pesante sconfitta elettorale per la Camera alta e per problemi di salute. Comincia così la traversata nel deserto, in un momento in cui molti anche nel suo Partito liberaldemocratico lo danno per politicamente spacciato. A lui succede un governo liberaldemocratico, guidato dal suo grande rivale dell’epoca all’interno del partito, Yasuo Fukuda, e tre governi espressione del Partito democratico, il cui consenso viene però eroso sia da scelte politiche non apprezzate, sia dalla devastante esperienza del terremoto/tsunami dell’11 marzo 2011, con il disastro nucleare di Fukushima. Così alla fine del 2012 Abe torna al Kantei, la sede del primo ministro nipponico, dopo aver ottenuto una schiacciante vittoria elettorale che gli consente di ottenere una maggioranza dei due terzi nella Camera bassa. Il suo mandato è caratterizzato da una serie di politiche espansive in termini economici, la cosiddetta “Abenomics”, ma anche da un processo di allargamento delle capacità militari del paese e di allentamento dei vincoli costituzionali che rendono complessa la difesa del Giappone a fronte della minaccia missilistica/nucleare nordcoreana e della politica estera assertiva della Cina.

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Il consenso del suo governo viene tuttavia eroso da una serie di scandali, in particolare quelli che riguardano i presunti favoritismi concessi a due istituzioni scolastiche che arrivano a lambire la sua persona e quella della moglie, Akie. A rendere ancora più preoccupante la situazione per il leader nipponico, arriva poi l’elezione a novembre 2016 di Donald Trump alla Casa bianca. Come molti, Abe si era esposto andando anche a incontrare a margine dell’Assemblea generale dell’Onu la candidata democratica Hillary Clinton. Quindi, con l’elezione del miliardario, mette in atto una strategia per recuperarlo: è il primo leader mondiale a precipitarsi alla Trump Tower per incontrare il presidente eletto, che nella campagna elettorale aveva ventilato anche la possibilità di disimpegnarsi in Asia se Giappone e Corea del Sud non avessero incrementato il loro impegno economico (dal 2012 Abe ha aumentato costantemente la spesa militare. Poi a febbraio i rapporti vengono cementati con un vertice parzialmente tenuto sui campi da golf di Mar-A-Lago, nel quale Abe non riesce a salvare la partecipazione Usa al Partenariato trans-Pacifico (TPP, la più grande area di scambio del mondo), ma fa andare nel dimenticatoio le critiche di Trump al Giappone sulla difesa e sul disavanzo della bilancia commerciale (anche perché il premier nipponico mette sul piatto ingenti investimenti negli Usa).

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Ad aiutare questa rinnovata alleanza ci si mette anche il leader nordcoreano Kim Jong Un, che proprio mentre i due sono a cena lancia un missile che cade nella Zona economica esclusiva del Giappone. Proprio la costante dei test missilistici – gli ultimi due dei quali hanno sorvolato parte del Giappone – e nucleari di Pyongyang diventa il cemento per questo rapporto, che avrà un ulteriore consolidamento quando a inizio novembre Trump volerà in Giappone. Kim, oltre che da collante dei rapporti Abe-Trump, sta anche facendo da acceleratore delle dinamiche interne in Giappone. Abe, rilevato un certo apprezzamento per la sua posizione ferma contro la Corea del Nord dell’opinione pubblica, improvvisamente a settembre decide di convocare elezioni anticipate per il 22 ottobre per la Camera bassa con il doppio obiettivo di ottenere il mandato per la riforma costituzionale e per dirottare su piani sociali l’extragettito che dovrebbe arrivare dall’incremento della tassa di valore aggiunto che dovrebbe avvenire nel 2020. Se la sua scommessa avrà pagato, lo capiremo dall’esito delle urne di domenica, dove Abe è dato per vincente e, semmai, si dovrà capire se riuscirà a mantenere la “supermaggioranza”. In tal caso avrà la strada aperta nella Dieta per procedere con la riforma della Costituzione. Ma i giochi non finiranno lì: perché tale riforma entri in vigore, oltre all’approvazione con oltre i due terzi nelle due camere della Dieta, dovrà passare anche attraverso un referendum costituzionale. E un sondaggio della Nhk, la tv pubblica nipponica, condotto a fine settembre non dava una maggioranza favorevole a mandare in soffitta l’articolo 9.

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