di Giuseppe Novelli
E’ passata per un solo voto (178 sì su un quorum richiesto di 177) l’apertura della Chiesa ai divorziati, voluta da Papa Francesco. La parola-chiave, “comunione”, nella relazione finale del Sinodo sulla famiglia non c’è: se fosse stata citata esplicitamente probabilmente i bergogliani sarebbero andati sotto, come si direbbe in Parlamento. Ma il concetto, al netto del linguaggio un po’ involuto, è chiaro: sarà il confessore, o il padre spirituale, che, in base alle indicazioni dei vescovi, deciderà caso per caso se dare o meno l’ostia, il sacramento dell’eucaristia ai divorziati risposati. Il Sinodo “non è un Parlamento”, “non è un parlatoio”, aveva detto Papa Francesco aprendo, tre settimane fa, l’assemblea ordinaria del Sinodo, la seconda in due anni, dopo quella straordinaria dell’anno scorso, con la quale ha voluto radunare vescovi di tutto il mondo a Roma per parlare della famiglia. Alla fine, però, è con un’occhio al pallottoliere, nella più classica delle sedute parlamentari, con un confronto serrato tra riformisti e rigoristi, con una vittoria ai punti per il rotto della cuffia, che Jorge Mario Bergoglio ha vinto l’assemblea. Il tema scelto, la famiglia, divide la Chiesa. Ci sono culture diverse, sensibilità ideali e ideologiche differenti, questioni disparate. Tanto che al sinodo straordinario di un anno fa, alla fine, la relazione finale non aveva raggiunto il quorum dei due terzi su tre paragrafi relativi alle due questioni più controverse, la comunione ai divorziati risposati e l’omosessualità.
La battaglia sinodale, quest’anno, non è stata meno agitata. Senza parlare degli eventi esterni al Sinodo, che pure hanno costituito un contrappunto mediatico, dal coming put del prelato polacco gay Krzysztof Charamsa alla vigilia dell’assemblea alla notizia smentita del tumore benigno del Papa, in aula e nei gruppi linguistici (circuli minores) sono andate in scena confronti, dibattiti, veri e propri scontri, filtrati appena da una comunicazione ufficiale vaticana che, in realtà, ha lasciato liberi i padri sinodali di dare interviste, twittare, pubblicare testi e interventi sui blog o sui giornali. La tensione, a volte, è stata palpabile, come ha rilevato lo stesso Jorge Mario Bergoglio nel discorso finale, quando ha stigmatizzato senza mezzi termini che le opinioni più diverse sono state espress “purtroppo talvolta con metodi non del tutto benevoli”. Un riferimento, forse ad una lettera di critiche di 13 cardinali, tre dei quali capi dicastero (Mueller, Pell, Sarah), ma probabilmente anche a molto altro. Alla fine, però, il voto si è concluso con una vittoria del Papa. Tutti i 94 paragrafi della relazione finale hanno raggiunto il quorum dei due terzi.
Il paragrafo più importante è comunque passato per un soffio. In aula c’erano 265 padri sinodali su 270, la maggioranza qulificata era di 177 e il paragrafo 85 ha ottenuto 178 “sì”, 80 “no” e 7 astenuti. Si tratta del paragrafo che stabilisce, citando Giovanni Paolo II e al contempo andando oltre la sua Familiaris consortio, per le persone che, dopo un divorzio, si sono risposate civilmente, che “la responsabilità non è la medesima in tutti i casi” e dunque “è compito dei presbiteri accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del vescovo”. La strada, probabilmente, è stata spianata dalla riforma che il Papa ha promulgato, poco prima dell’apertura del Sinodo, che semplifica la nullità matrimoniale: se una persona era sposata in Chiesa ma senza vera fede potrà ottenere più facilmente l’annullamento e risposarsi in un secondo matrimonio vissuto nella fede. La minoranza di ottanta padri sinodali, ad ogni modo, ben più consistente di quanto prevedevano le ipotesi più rosee alla vigilia del Sinodo mostra che gli uomini del Papa hanno dovuto faticare fino all’ultimo per ottenere questo risultato.
La relazione tocca molti altri punti. Parla di omosessualità, riconoscendo “dignità”, ma senza citare le coppie gay e, anzi, stigmatizzando i tentativi di influenzare i paesi in via di sviluppo in cambio di aiuti economici, apertura per le convivenze pre-matrimoniali, e ancora molto altro. Il testo, ha assicurato il cardinale ghanese Peter Turkson, nonè stato “annacquato” per ottenere il via libera. Il Papa, da parte sua, ha concluso il discorso con un testo forte, vibrante, a tratti severo. La Chiesa, ha detto, ha dimostrato di non aver “paura di scuotere le coscienze anestetizzate”, di non giudicare “con superiorità e superficialità” le famiglie ferite. Non ha ceduto alla “ermeneutica cospirativa” (concetto usato in aula dal Papa, a porte chiuse, quando ha risposto alla lettera dei 13 cardinali), non ha chiuso le porte ai “peccatori in ricerca del perdono”, non ha seguito chi vorrebbe “indottrinare” il Vangelo “in pietre morte da scagliare contro gli altri”. La sua missione non è distribuire anatemi, ma misericordia. Come il giubileo che si apre il prossimo dicembre. Cornice perfetta per il prossimo passo. I padri sinodali hanno chiesto “umilmente al Santo Padre” di valutare la possibilità di scrivere, a partire dalla relazone finale, “un documento sulla famiglia”. Ma non sarà solo, come qualcuno ha sperato facendolo andare sotto sui divorziati risposati: “Per la Chiesa concludere il Sinodo significa tornare a ‘camminare insieme’ realmente per portare in ogni parte del mondo, in ogni diocesi, in ogni comunità e in ogni situazione la luce del Vangelo, l’abbraccio della Chiesa e il sostegno della misericordia di Dio!”.