Tre ore in acqua, con la speranza che qualcuno si accorgesse di loro. Quando li hanno salvati erano in ipotermia, in condizioni di salute precarie. “Piuttosto che tornare in Libia preferiamo morire”, hanno detto a chi gli ha lanciato il giubbotto di salvataggio, a quei soccorritori che hanno messo fine al loro incubo.
I tre sopravvissuti dell’ultima strage del Mediterraneo, un gambiano e due ghanesi, sono ancora sotto shock e si affidano agli interpreti presenti a Lampedusa per raccontare nella loro lingua il viaggio dall’Africa verso l’Europa. “Su quel gommone eravamo in 120, 10 donne, di cui una incinta, e anche un bambino di due mesi – dicono -. Sono morti tutti davanti ai nostri occhi, dispersi in mare mentre il gommone imbarcava acqua”. Quello che stupisce e’ la freddezza con cui parlano delle interminabili ore trascorse sul gommone – almeno 11 – con il pericolo di perdere la vita ogni momento.[irp]
“Preferiamo rischiare la morte che tornare in Libia”, raccontano mentre nei loro occhi scorrono le immagini dei drammatici momenti delle violenze, degli abusi, degli stupri prima di imbarcarsi alla volta del Vecchio Continente. “A chi riesce a eludere i blocchi e a partire – sottolineano – non interessa affatto la possibilita’ di morire”. Gran parte dei migranti che erano sul gommone, raccontano, erano sudanesi. “In quaranta venivano da li’ – spiegano -, gli altri dall’Africa occidentale”. Nessuno di loro indossava giubbotti di salvataggio. “Da anni – ribadiscono i soccorritori – non vengono forniti. Chi riesce li compra, gli altri, per lo piu’ africani, restano senza”. Ora, a Lampedusa, i ragazzi provano a ripartire, presi in cura dai medici che costantemente ne tengono sotto controllo le loro condizioni di salute. Oggi sono migliorati ed e’ stato scongiurato il ricovero in ospedale.