Spagna, tutti gli errori che hanno chiuso l’era del “juancarlismo”

Juan Carlos I di Borbone
4 agosto 2020

Un’operazione all’anca dopo una banale caduta: nulla di straordinario se non fosse che l’anziano paziente era un monarca, l’incidente accadde durante un safari all’estero e con lui non si trovava la moglie, ma una “cara amica”. Per Juan Carlos I di Borbone la parabola della caduta dall’Olimpo inizia qui, nell’aprile del 2012, con la Spagna sull’orlo del disastro economico e la disoccupazione alle stelle. Non era certo il suo primo safari, e la sua infedeltà era già leggendaria – ma appunto, confinata alla tradizione orale: per la stampa, e per la maggior parte degli spagnoli, Juan Carlos rimaneva ancora l’eroe che sventò il golpe del 1981.

L’incidente – che in un primo momento la Casa Reale spagnola valutò se tenere segreto – cambiò la percezione popolare di un monarca fino ad allora indiscusso: venne fuori che il viaggio in Botswana era costato 40mila euro, lo aveva pagato un consulente della famiglia reale saudita (Mohamed Eyad Kayali, poi spuntato fuori nei Panama Papres) e la cara amica rispondeva al nome di Corinna zu Sayn-Wittgenstein, principessa in virtù dell’ex marito (meno esoticamente, Corinna Larsen da nubile) nonché consulente finanziaria di Juan Carlos. Che il vento sia cambiato se ne accorge anche la stoica regina Sofia, che tarda tre giorni a presentarsi in ospedale; quanto a Juan Carlos, si spaventa al punto da sentirsi in dovere di scusarsi pubblicamente – il che manda in bestia i tradizionalisti: un re non si scusa mai – in un “discorso” di undici parole le cui ultime quattro sono “non succederà più”. Non basta: i sondaggi privati della Zarzuela sulla popolarità della monarchia (che, non va dimnenticato, ha il vizio di origine di essere stata restaurata da Franco, beninteso solo a titolo postumo) vedono il consenso calare in picchiata, specie fra le giovani generazioni – quelle della cui disoccupazione Juan Carlos si era pubblicamente detto preoccupatissimo prima di volare a caccia di elefanti.

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La Casa Reale cerca quindi di correre ai ripari con iniziative a volte dagli effetti collaterali imprevisti: nulla di male, ad esempio, nel pubblicare i conti finanziari della Corona, ma improvvisamente ci si rende conto che nessuno conosce quale sia il patrimonio personale del monarca (grande amico di vari imprenditori, o meglio viceversa – del resto quella della vicinanza fra affaristi e regime è una salda tradizione fin dai tempi del dopoguerra). Arrivati al gennaio del 2013, l’intera famiglia reale si è letta uno studio di tre esperti di marketing svedesi in cui si afferma che la monarchia in quanto brand si regge su due colonne: cittadini e Parlamento – se ne viene a mancare anche solo uno, è ora di fare le valigie. Il processo del “Caso Noos” – che vede sul banco degli accusati anche l’Infanta Cristina – finisce con la condanna in carcere del genero di Juan Carlos: Iñaki Urdangarín, in puro stile cremliniano, finisce fuori dalle fotografie della famiglia reale. La vicenda riaccede i riflettori sui peccati presenti e passati dell’inquilino della Zarzuela – dalle amicizie pericolose con imprenditori finiti in galera alle avventure galanti – e i sondaggi ceritificano che lo spazio di manovra di Juan Carlos ormai è nullo.

L’unica soluzione è l’abdicazione – negoziata peraltro in termini non propriamente costituzionali: dovrebbero essere le Cortes a decidere, invece è un accordo familiare – che tuttavia non spegne l’interesse dei media e non solo: si scopre che Juan Carlos aveva tarsferito 65 milioni di euro alla cara amica Corinna, che possedeva conti in Svizzera, e dulcis in fundo una fondazione a Panama il cui secondo beneficiario era il figlio Felipe. Tanto che lo stesso Felipe (non più principe ormai ma VI del nome) annuncia pubblicamente di voler rinunciare all’eredità del padre (cosa peraltro impossibile con Juan Carlos ancora in vita) tagliandogli anche l’assegnazione annuale dal bilancio della Corona – la cui gestione effettiva è in mnano a chi siede sul trono. Le ultime rivelazioni sulle presunte tangenti sono state l’ultima goccia che ha costretto Felipe ad attuare il piano di emergenza: convincere Juan Carlos a lasciare il Paese, nella speranza che la monarchia esca dalla sua ombra ormai troppo ingombrante – giudici della Corte Suprema permettendo.

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Considerando però che la massima istanza giuridica è conservatrice e monarchica, e che fino al 2014 Juan Carlos godeva dell’inviolabilità qualunque cosa avesse fatto, è del tutto improbabile che la situazione legale del re emerito si complichi oltre misura – a meno che un’archiviazione non possa in qualche modo danneggiare ulteriormente l’immagine della Corona e quindi mettere a rischio il trono di Felipe. Sia come sia, di Juan Carlos artefice dalla Transición dal franchismo alaldemocrazia e dell’eroe del golpe rimane solo un’immagine sbiadita ormai di pertinenza degli storici: la Spagna, che più che monarchica era stata “juancarlista”, deve ora interrogarsi sul futuro di un’istituzione che viene ora giudicata in base ai meriti personali del titolare, più che della legittimità storica o della convenienza politica. Tuttavia, almeno al momento e salvo sorprese legali, Felipe può dormire sonni tranquilli: mettere in discussione la Corona vuol dire mettere in discussione l’intero assetto statale, e i principali partiti – non a caso definiti spesso “dinastici” – non ne hanno alcuna voglia; e agli occhi di una buona parte degli spagnoli, anche sedicenti progressisti (il mai tramontato “franchismo sociologico”) la Repubblica è sinonimo di disordine e secessionismo. askanews

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