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Il vertice della Lega Araba si è chiuso ieri al Cairo con un netto e unanime “no” a qualsiasi ipotesi di trasferimento forzato dei palestinesi dalla Striscia di Gaza. Tuttavia, nonostante l’urgenza di avviare la ricostruzione dell’enclave dopo 15 mesi di conflitto e il sostegno formale ai diritti del popolo palestinese, mancano impegni concreti e promesse chiare da parte degli Stati arabi partecipanti. Un risultato che, secondo fonti vicine ai negoziati, avrebbe potuto essere più incisivo.
Fonti ufficiali egiziane, citate dal quotidiano Al Ahram, hanno ammesso che il linguaggio del comunicato finale non è stato all’altezza delle aspettative. “Avevamo sperato in una presa di posizione più forte, soprattutto considerando la pressione di Washington per un’eventuale espulsione dei palestinesi da Gaza”, ha confessato una fonte egiziana. “Ma alla fine abbiamo dovuto accontentarci di un compromesso, pur di raggiungere un consenso minimo”. Quel consenso, però, c’è stato almeno su un punto: l’opposizione unanime a qualsiasi piano che preveda lo sfollamento forzato della popolazione di Gaza.
I lavori del vertice sono stati segnati da dibattiti accesi su tre questioni cruciali. La prima: la fattibilità del piano egiziano di ricostruzione senza il trasferimento della popolazione. La seconda: il costo stellare dell’operazione, stimato in 53 miliardi di dollari. La terza: le perplessità di alcuni paesi a investire in un’operazione che potrebbe essere vanificata da un nuovo ciclo di violenze. Molti temono che Hamas o altri gruppi armati possano lanciare attacchi, dando a Israele il pretesto per riaprire le ostilità.
Secondo fonti interne, Qatar e Kuwait si sono detti pronti a contribuire almeno alla prima fase del piano. Ma Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, rappresentati al vertice da delegazioni di secondo piano, hanno mantenuto le distanze. I paesi del Golfo, in particolare gli Emirati, chiedono garanzie chiare: la smilitarizzazione totale dei gruppi armati palestinesi e un impegno formale alla resistenza pacifica. Una richiesta che, però, si scontra con la posizione intransigente di Hamas.
Proprio ieri, il leader di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha bollato come “una sciocchezza” qualsiasi discorso sulla smilitarizzazione. “Le armi della resistenza sono una linea rossa per Hamas e per tutte le fazioni palestinesi”, ha ribadito, rispondendo alle richieste israeliane di disarmo come condizione per un cessate il fuoco duraturo. Una posizione che rende impossibile qualsiasi compromesso sulla ricostruzione e sulla gestione futura di Gaza.
“Siamo sinceri: ci sono troppe divergenze sulla questione palestinese”, ha ammesso una fonte egiziana. “Raggiungere un accordo è stato un enorme sforzo, ma almeno abbiamo evitato il peggio: nessun paese arabo ha ceduto alla tentazione di appoggiare piani di espulsione forzata, come quello proposto da Trump”.
Un altro punto di frizione è stata la governance futura di Gaza. I paesi arabi non hanno trovato un’intesa sulla composizione dell’entità politica che dovrà gestire l’enclave e sul suo eventuale legame con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), considerata da molti inefficiente e politicamente superata.
Nonostante queste divisioni, il comunicato finale è stato descritto come “il più forte possibile”, anche se a tratti vago e generico. Il piano sarà ora sottoposto a Stati Uniti, Israele e altri partner internazionali per ulteriori discussioni. Fonti egiziane hanno rivelato che il Cairo ha già avviato consultazioni con Washington per organizzare incontri ad alto livello e definire i prossimi passi.
La posizione americana, intanto, resta fredda e distante. Ieri, il portavoce della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Brian Hughes, ha commentato il piano arabo con scetticismo: “Non affronta la realtà che Gaza è inabitabile, con i suoi residenti costretti a vivere tra macerie e ordigni inesplosi”. Hughes ha ribadito che il presidente Trump sostiene una ricostruzione di Gaza senza Hamas e che gli Stati Uniti sono pronti a nuovi colloqui per portare “pace e prosperità” nella regione.
In conclusione, il vertice del Cairo ha segnato un passo avanti nel rifiuto collettivo di qualsiasi piano di espulsione forzata, ma le divisioni interne e la mancanza di impegni concreti lasciano molte incertezze sul futuro di Gaza. La ricostruzione dell’enclave, così come la sua stabilizzazione politica, rimangono obiettivi lontani, in balia di equilibri regionali sempre più complessi.