Il tempo è un bastardo, diceva qualche anno fa in un romanzo da Pulitzer la scrittrice americana Jennifer Egan. Il tempo è una dimensione che non possiamo sconfiggere in nessun modo, salvo forse attraverso la sua rappresentazione, ma in ogni caso la vittoria sarà – se sarà – effimera. Su questo tema si può inserire anche l’ultimo lavoro di Stefania Fersini, artista torinese finalista con “Vanitas” alla 17esima edizione del Premio Cairo. Ma al di là dei premi – istituti sempre discutibili – quello che ci interessa davvero è la struttura del lavoro, e, nel caso di Fersini, la ricerca di una nuova dimensione anche per una pratica classica come quella della pittura.
“La questione – ci ha detto l’artista presentando l’opera – è che qui non gioco più con il luogo, ma ho tentato di giocare con il tempo. Perché il vaso è un’anfora in vetro che può essere quasi eterna, come idea, cioè l’anfora ha le sue origini molte ere fa. E poi c’è una rosa, recisa, che in realtà invece è il simbolo della caducità”. Eternità ed effimero, dunque, in gioco di vertiginosi rimandi tra un falso specchio e un vero fiore che, apparentemente, in esso si riflette, neppure fosse un perenne Dorian Gray. La cosa interessante, però, nella ricerca di Stefania Fersini sono i punti di frattura, quelle zone di faglia solo apparentemente tranquille nelle quali invece si cela il ragionamento profondo sull’idea intorno alla quale ruota buona parte del suo universo creativo: l’assenza. “Comunque c’è questa assenza, sempre – ha aggiunto -. Qui l’assenza non è nell’immagine assente, e quindi quel bianco dei miei lavori precedenti, ma in questo caso quel bianco è la rosa, e la rosa non ci sarà a breve”.
Quello che rimane, quindi, è “la presenza dell’assenza”, che per Fersini si manifesta attraverso i quattro diversi livelli di lettura del singolo oggetto “rosa”, che appare reale, riflesso, e dipinto sia come reale sia come riflesso. Ma a questo punto siamo sicuri di avere anche solo una vaga idea di cosa sia la “realtà”? Perciò non possiamo non chiedere all’artista – con un filo di ansia – quale potrebbe essere il quinto livello del suo lavoro. “Il quinto grado – ha concluso Stefania Fersini – secondo me è l’instabilità che si crea in chi ci è davanti”. La rosa recisa non c’è più. L’opera forse, in ogni caso è certamente cambiata. Resta il senso del tempo, quel bastardo che possiamo solo provare a descrivere.