Sono almeno 100 i civili rimasti uccisi nei combattimenti in corso da tre giorni a Khartoum e in altre zone del Sudan tra le rispettive forze dei leader militari che guidano il Paese dal golpe messo a segno a fine del 2021. Una resa dei conti tra il presidente della giunta militare e capo dell’esercito, Abdel Fattah al-Burhan, e il vice presidente e comandante delle Forze paramilitari di supporto rapido, Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, che rischia di far precipitare il Paese in “una guerra civile”, ha ammonito Abdalla Hamdok, l’ex premier del governo di transizione rovesciato nell’ottobre 2021.
Le Nazioni Unite hanno riferito oggi di “scontri che si sono intensificati”, dopo aver denunciato il mancato rispetto della tregua umanitaria di tre ore che era stata concordata ieri. I combattimenti più intensi, con colpi di artiglieria, sono in corso a Khartoum attorno al palazzo presidenziale, al quartier generale dell’esercito, all’aeroporto internazionale, alla sede della tv pubblica, ma ci sono notizie anche di scontri nella città di Merowe, nel nord del Paese, attorno alla base dove sono presenti anche militari egiziani, e nella regione occidentale Darfur, per il controllo di siti militari.
Oggi Hemetti ha sollecitato l’intervento della comunità internazionale contro quelli che ha definito “i crimini commessi” da al-Burhan, definito “un islamista radicale che sta bombardando i civili”. Da parte sua, il leader della giunta ha ordinato lo scioglimento delle Forze di supporto rapido, dichiarandole “una forza ribelle” e, in una nota diffusa dal ministero degli Esteri, ha fatto sapere che quanto sta accadendo nel Paese “è una questione interna che deve essere lasciata ai sudanesi perché arrivino al necessario accordo tra di loro, lontano da interferenze internazionali”.
La resa dei conti tra al Burhan ed Hemetti arriva al termine di un periodo di crescenti tensioni dopo l’accordo quadro firmato lo scorso dicembre dalla giunta militare con le forze politiche per dare vita a un nuovo governo di transizione civile. Un accordo che prevedeva anche l’integrazione delle Forze di supporto rapido nelle forze armate sudanesi, questione rimasta invece irrisolta e che ha fatto fallire i colloqui che avrebbero dovuto portare, l’11 aprile scorso, all’insediamento del governo civile.
Create nel 2013, le Forze di supporto rapido nascono dalla milizia janjaweed (diavoli a cavallo) che l’ex presidente sudanese Omar al-Bashir aveva dispiegato contro le minoranze non arabe della regione occidentale del Darfur nella guerra scoppiata nel 2003. Una milizia accusata di numerosi crimini di guerra e integrata poi nel 2013 nel sistema di sicurezza del Paese. Dopo la caduta di al Bashir, nel 2019, l’esercito sudanese e le forze paramilitari si sono trovate unite nell’opposizione al governo di transizione di Hamdok deciso a limitare il potere, anche economico, dei militari per rilanciare lo sviluppo del Sudan dopo anni di isolamento internazionale.
Di recente Al Burhan, soldato di carriera del nord del Sudan che ha scalato i ranghi sotto il governo di al Bashir, ha definito il golpe del 2021 “necessario” per includere più fazioni nella politica, mentre Hemetti lo ha bollato come un “errore” che ha rafforzato le forze del passato regime di al Bashir. “Entrambe le parti hanno basi in tutto il paese. Entrambi vedono questa lotta in termini esistenziali. Questa è una pura lotta di potere per chi controllerà il Sudan”, ha detto al Financial Times Alan Boswell, capo analista per il Corno d’Africa del think tank Crisis Group.