I cittadini di Taiwan, una delle più vibranti democrazie asiatiche ma anche un paese che vive con la spada di Damocle di un possibile conflitto con la Cina, vanno al voto oggi in elezioni cruciali che, più che per l’esito, presentano elementi d’incertezza rispetto a come Pechino interpreterà il risultato. Sembrano esservi pochi dubbi che la presidente “indipendentista” Tsai Ing-wen riesca a vincere la corsa elettorale. I sondaggi la danno sopra il 50 per cento, mentre il suo concorrente Han Kuo-yu – sindaco di Kaohsiung esponente del partito nazionalista Kuomintang (KMT) che ha un approccio più morbido con Pechino – arranca attorno il 20 per cento. E la vittoria di Tsai sarebbe ulteriore favorita in caso di alta affluenza tra i 19 milioni di aventi diritto al voto. Tsai è inoltre particolarmente apprezzata dai giovani per la sterzata progressista che ha dato al paese: primo, per esempio, a consentire le nozze gay in Asia.
In realtà Tsai e il suo Partito democratico progressista (DPP) hanno ricevuto un aiuto inatteso da Hong Kong. Se si guarda all’ultimo anno della politica taiwanese, infatti, si può notare che si è passati da una sconfitta nelle elezioni politiche del 2018, il che faceva pensare a un’alternanza in vista, a una rimonta inarrestabile. A mettere benzina nel motore del DPP è stata la crisi politica a Hong Kong: mesi e mesi di proteste pro-democrazia, di scontri, di repressione, con la Cina che minacciava una reazione durissima a ogni pie sospenti. Tsai ha cavalcato sapientemente la tigre, rendendo il voto un referendum pro o contro la Cina. E mettendo in secondo piano anche le preoccupazioni economiche in caso di confronto duro con Pechino, che sono state un cavallo di battaglia della campagna Han. Peraltro, questew si sono rivelate un’arma spuntata, visto l’economia, a Taiwan, non sta andando affatto male. Nel 2019 la stima è che il suo Pil sia cresciuto del 2,5 per cento: per la prima volta in 20 anni Taipei è la “tigre asiatica” che cresce di più. Le quattro “tigri asiatiche” sono per convenzione Singapore, Corea del Sud, Hong Kong e, appunto, Taiwan.
Anche in questo caso, Tsai deve ringraziare una congiuntura favorevole: la guerra commerciale in corso tra gli Stati uniti e la Cina ha favorito, infatti, la “provincia ribelle”. Investimenti che in un clima disteso sarebbero probabilmente finiti in Cina, sono andati a Taiwan. Questa cornice ha anche incentivato un calo ulteriore del tasso di disoccupazione, costantemente sotto il 4 per cento. Apparentemente liquidato, quindi l’avversario interno, per Tsai resta aperto l’altro, più scottante dossier: Pechino. Dopo aver condotto una campagna elettorale volta proprio a esorcizzare il fantasma cinese, in vista del voto dalla cerchia di Tsai sono partiti messaggi chiari nei confronti dell’ingombrante madrepatria. “Io non penso che la Cina dovrebbe leggere le elezioni di Taiwan come una propria vittoria o sconfitta”, ha segnalato oggi il ministro degli Esteri Joseph Wu. “Se la Cina – ha proseguito – dovesse fare una lettura troppo tra le righe delle nostre elezioni e vedere che la vittoria di qualcuno (Tsai, ndr.) è una sua sconfitta, allora potrebbe esservi uno scenario in cui la Cina s’impegna in un’intimidazione militare e nell’isolamento diplomatico, o nell’uso di misure economiche come punizione contro Taiwan. E’ quello che non vogliamo vedere”.
Di certo, però, una conferma di Tsai sarebbe letta da Pechino come uno schiaffo, specialmente in un momento in cui il modello “un paese, due sistemi”, che ha adottato a Hong Kong, è messo in discussione nell’ex colonia britannica dai manifestanti pro-democrazia. Si tratta, in fondo, dello stesso approccio che potrebbe ritenere praticabile per arrivare a un’eventuale soluzione non conflittuale con Taiwan. E che Tsai ha respinto esplicitamente nei giorni scorsi: “Voglio ribadire che Taiwan non accetterà mai ‘un paese, due sistemi’. La grande maggioranza della pubblica opinione taiwainese vi si oppone”. Wu, inoltre, ha denunciato il fatto che durante tutto il periodo elettorale le interferenze cinesi si sono ripetute virtualmente “ogni giorno”. Si è andati dalla nuova portaerei cinese nelle acque dello Stretto di Taiwan, alle restrizioni nei confronti del turismo diretto nell’isola, fino alla disseminazione di fake news sulle piaffaforme sociali online. Dinsinfomazione che, apparentemente, non ha attecchito.
Questa ingombrante presenza cinese ha fatto sì che la questione della difesa sia stata centrale nella campagna di Tsai. Taiwan, la cui spesa militare non supererà i 20 miliardi di dollari nel 2020, non avrebbe molte speranze di reggere a un impatto militare della Cina, che ha costantemente incrementato le sue capacità militari e che si stima abbia speso nel 2018 qualcosa come 200 miliardi di dollari. Anche con la fornitura di nuovi sistemi radar e di nuovi aerei da guerra accordata dagli Stati uniti dell’Amministrazione Trump non basterebbero. Una difesa di Taiwan, però, implicherebbe un coinvolgimento nel conflitto anche degli Usa. E questo rende il rischio elevatissimo per tutto il mondo. L’ipotesi di un conflitto non è considerata dagli osservatori come probabile, ma neanche come fantascientifica. D’altronde, il presidente cinese Xi Jinping – il leader cinese più forte dai tempi di Mao Zedong – non ha mai nascosto la sua ambizione di portare a termine l’unificazione. Solo una settimana fa ha ribadito che Taiwan “deve essere e sarà” riunita alla madrepatria cinese. Taipei deve rinunciare all’idea di un’indipendenza che “andrebbe contro il corso della storia”. La Cina, in questo senso, “si riserva l’opzione di assumere tutte le misure necessarie”, ha ammonito. Compreso, quindi, l’uso della forza. Dal canto suo, Tsai nel discorso di inizio anno (un giorno prima che parlasse anche Xi) ha espresso una posizione in totale rotta di collisione con Pechino: “Vorrei chiedere alla Cina di prendere pienamente atto dell’esistenza della Repubblica di Cina a Taiwan”.