Per Ovadia il siciliano andrebbe portato sempre in teatro e cita Camilleri: “Usa il dialetto perché riconosce in esso una forza che l’italiano non può dargli. Facciamo un esperimento? Facciamo leggere a qualcuno in italiano un brano del coro delle Supplici, poi lo portiamo al bar e gli chiediamo cosa abbia detto il coro. Non lo ricorda”. Non c’è il rischio di fare scivolare la tragedia in una farsa? “C’è un detto – risponde – che dice: ‘Cu tuttu ca sugnu orbu a viru niura’ (anche se sono cieco la vedo nera, ndr): fa ridere ma è amaro. E c’è in Sciascia quell’altra battuta di chi a Racalmuto durante il fascismo va a votare e dice al presidente del seggio porgendo la busta elettorale: ‘Ci sputassi vossia’ (Ci sputi lei, ndr). E’ il massimo del disincanto, ma provoca una risata”. Ovadia ha incontrato la lingua siciliana a Milano: “Nella casa di ringhiera – ricorda – c’era un vicino che mi parlava sempre in dialetto. Quando arrivai dalla Bulgaria il mio primo amico fu messinese. E poi sono stato amico del poeta Ignazio Buttitta”.