di Laura Donato
Senza quindi una guida, in buca e sulla scena, ecco che gli interpreti hanno cercato di dare più di quanto potessero e sentissero dei loro personaggi. Su tutti Alberto Gazale nel ruolo del titolo. Il baritono sardo ha mostrato tutta la valenza di una voce sicura, dal timbro scuro, poco incline tuttavia a piegarsi, ammorbidendosi, alle dinamiche richieste dal ruolo e dalla partitura. Un Rigoletto rabbioso il suo, più che uno sfortunato irriso dalla sorte e dagli uomini, che perde il suo unico bene in terra, la figlia. Una figlia, Gilda, ben delineata dal soprano Daniela Bruera, estatica al punto giusto e ferma nelle coloriture e variazioni di Caro Nome, meno drammatica e intensa nella seconda parte dell’opera, dove è richiesto uno spessore maggiore a livello interpretativo e vocale. Assente in scena e vocalmente il Duca del coreano Jaeheui Kwon, cui neanche una probabile microfonatura dell’ultimo momento ha reso più incisivo sulla scena. Nella tradizione e nella norma i comprimari – ad eccezione dello Sparafucile di Maurizio Muscolino, con un discreto controllo delle note gravi e una moderata disinvoltura scenica – con una poco incisiva e seducente Maddalena di Kulli Tomingas, ed un giovanissimo, anche vocalmente, Monterone di Davide Giangregorio. Piatta l’esecuzione del coro dei cortigiani, solitamente uno dei punti di forza dell’opera, diretto da Ross Craigmile, al cui interno le voci di Borsa (Riccardo Palazzo), Marullo (Simone Tansini) e Ceprano (Nazario Pantale Gualano) si mescolavano senza spiccare particolarmente. Un Rigoletto, quindi, quello del Bellini di Catania dove la tradizione va a nozze con i luoghi comuni di una certa operistica di stantia e vecchia memoria, invece di trovare spunti di rinnovamento anche nella tradizione stessa e nel “così sta scritto” verdiano. (foto, tenore Jaeheui Kwon e Daniela Bruera)